martedì 30 ottobre 2012

'Caduto fuori dal tempo': le parole di David Grossman


A sei anni dalla morte del figlio, morto in guerra, David Grossman ci parla del suo libro ‘Caduto fuori dal tempo’ che nasce da quella terribile esperienza.

Le sue parole sono apparse su ‘la Repubblica’ del 25 ottobre. Ne propongo alcuni stralci.
 


.. per la centesima volta penso a come sia fuorviante utilizzare parole del mondo dei vivi, di ‘qui’ , per descrivere qualcosa che appartiene a ‘laggiù’ (…) Durante l’intera stesura del libro ho avuto la sensazione che per parlare di ‘laggiù’ fosse appropriato solo un grido animalesco, antecedente all’umanità, al linguaggio. O il pianto. Oppure un atto puramente fisico e del tutto inspiegabile: per esempio una corsa senza meta fino all’esaurimento delle forze.. (…)

Eppure arriva un momento in cui si sente il bisogno di parlare . Perché questa è l’essenza dell’uomo: voler esprimere tutto ‘questo’ e ‘laggiù’ con parole, discorsi, scrittura, poesia. (..)

E dal momento che ho iniziato a scrivere,  le frasi  sono affiorate sono affiorate sotto forma di poesia, con il ritmo e il respiro della poesia.  Non è stata una scelta. Non è stata una ‘decisione’. Un attimo prima non sapevo che sarebbe stato così, ma mentre scrivevo le parole arrivavano quasi sempre sotto forma di poesia. (…) Posso solo supporre perché è stato così. Forse perché la poesia è più vicina al silenzio. O perché l’impulso di scrivere arrivava quasi sempre insieme a quello di non scrivere e alla sensazione che, se proprio dovevo dire qualcosa, quella cosa doveva essere esile, quasi evanescente: poesia.(…)


E mano mano che la scrittura procedeva capivo ciò che ha capito Centauro nel libro quando dice:
 
Ed è la mia anima,
a essere falciata
nel gelido biancore
fra una parola
e l’altra. Sono
io,
io a fremere come una preda
nelle fauci dell’assoluto. 

Combatto per me stesso,
solo per la mia anima
contro ciò che annichilisce
offusca
e sminuisce. 
 
Tutta la mia vita
ora,
tutta la mia vita
in punta
di penna.
(…)

Ecco cosa mi ha dato la scrittura: la sensazione di non essere una vittima passiva e impotente di ciò che è accaduto. (…)

E un’altra cosa ho imparato in questi anni: in certe situazioni l’unica liberà che ha un uomo è quella di formulare la propria storia con le proprie parole, non con quelle dettate dagli altri. (…)

..mentre lavoravo a questo libro sentivo – in contrasto con le circostanze in cui è stato scritto – di essere fortunato perché potevo dare a tutto ‘questo’ parole.

lunedì 29 ottobre 2012

Voci dalla comunità


L'arrivo in comunità

 Beh, per  incominciare non è stata una mia scelta venire in comunità quindi anche per questo è stato traumatico.

Appena arrivata la struttura mi è piaciuta. Le ragazze,  diciamo che  alcune sono tranquille altre di meno (in una struttura è normale non andare d'accordo con tutte ma ci si adatta) poi ancora non le conosco bene, parlo delle prime impressioni.

Per il resto gli educatori non mi stanno tutti simpatici ma si può dire che sono accettabili. Nel contesto mi aspettavo peggio: una comunità molto più rigida e dura. Non è che questa sia una passeggiata ma,  in fondo, ce la posso fare, almeno ci metto l'impegno.

Comunque appena arrivata, avevo il cuore che batteva al massimo, Stavo con un ansia insuperabile. Per un minuto ho pensato anche di andare via subito ma poi,  parlando con un' educatrice  e capendo più o meno come funzionava mi sono tranquillizzata o ho realizzato che ci devo stare per forza perciò meglio ambientarmi prima possibile.

Ora è quasi un mese che sto qui e sicuramente il mio stato d'animo non è dei migliori. Tendo ad  isolarmi.
 
 
 
Credo che se fossi venuta di mia spontanea volontà sarebbe stato tutto diverso ma purtroppo è andata così e conoscendomi so che sarà dura ma cercherò di dare il massimo per rasserenarmi e  instauravo anche un rapporto con le altre.
 
M.

 

 

 

domenica 28 ottobre 2012

Mirella ci racconta dei fiori


Giardino

Il giardino è come noi stessi

Se lo coccoliamo fiorisce

Se lo abbandoniamo patisce,

strappare le erbacce

è come strappare la rabbia

che abbiamo dentro,

dopo si sta meglio.

I fiori ti parlano, fremono

ti ringraziano quando li nutri,

la tua giornata migliora se la alimenti

con gesti costruttivi, anche duri,

ma con serenità e volontà di dare.

 

sabato 27 ottobre 2012

stelle e comete




da Elisabetta
 
 
 
Vi sono alcune persone “stelle” e altre “comete”.

C’è molta gente “cometa”.

Attraversa la vita della gente per un attimo,

gente che non si attacca a nessuno e da nessuno si lascia attaccare.

Gente senza amici. Gente che attraversa la vita

 senza illuminare, senza riscaldare, senza lasciare traccia.

L’importante è essere “stella.

Rimanere, restare presenti, lasciare una traccia.

Restare uniti. Essere luce. Essere calore. Essere via.

(Wilson Joao)

 

 

giovedì 25 ottobre 2012

Le scarpe della mia vita raccontano



 
Cosa potrebbero raccontare le mie scarpe?

Immagino che chiuse nella scarpiera si scambino delle impressioni su di me, si diranno che le tratto bene e che sono sempre le stesse in quella scarpiera perché io fatico a buttarle, soprattutto quando sono molto comode. Ho delle scarpe che indosso sempre e altre che non uso da annima che non butto, mi affeziono anche agli oggetti.

Se le mie scarpe potessero parlare direbbero che sono quasi tutte della stessa altezza, cioè basse, almeno nella scarpiera nessun paio si sentirà superiore ad un altro, basse per comodità, per avere una maggiore stabilità, perché mi sento a mio agio, invece quando raramente indosso scarpe con i tacchi mi sento meno me stessa, più impacciata. 

Le mie scarpe direbbero che hanno visto la neve, bianca e candida che l’anno scorso è stata abbondante, direbbero che hanno visto il mio mare, pulito e cristallino, direbbero che hanno sentito i miei sfoghi, hanno visto le mie lacrime, hanno udito le mie risate.

A volte sono state maltrattate quando le ho tolte di fretta senza slacciarle, altre volte le ho curate e lucidate con una crema per renderle più belle, un po’ come la crema antirughe che usiamo noi donne. Anche le scarpe hanno le rughe date dalla pioggia, dal sole o più semplicemente dal tempo che passa, eh si il tempo passa anche per loro e se appena comprate sono una novità, sono belle, “invecchiando”

Hanno visto così tante cose e vissute varie esperienze che acquistano fascino, proprio come noi donne.

La ragazza dal vestito a fiori

 

 

mercoledì 24 ottobre 2012

Scarpe al maschile.

I ricordi di un ragazzo di tanti anni fa

"Le scarpe della mia vita raccontano...." 

La scarpa ci può riportare ad un ricordo della vita in generale, per introdurre il pensiero in questo tema una vecchia canzone, ahimè come me, ritorna nella mia memoria “vecchio scarpone quanto tempo è passato, quanti ricordi………………

Andavo a studiare in casa di un mio compagno di scuola e molto spesso vedevo la madre di questo amico, che con un attrezzo da calzolaio, metteva le “bullette” di ferro nelle punte e nei tacchi delle calzature dei propri figli, così nei punti di maggior consumo, la scarpa poteva durare molto  più tempo nell’uso quotidiano. Io invidiavo il mio compagno di scuola perché le sue scarpe, se opportunamente usate e strisciate, sprigionavano scintille sull’acciottolato. Ora a pensarci bene, questo ricordo, può far capire la miseria dell’Italia in quel tempo, però una cosa così negativa a me suscitava invidia.

venerdì 19 ottobre 2012

Pillole di autobiografia

(segue)

Feste in famiglia ovvero l'educazione dei figli vista dai figli

Tre tragicommedie in due atti 

2010.  Pranzo di Natale  

Luogo: tavola natalizia

Personaggi: madre, padre, figli, nipoti ecc. ecc.

 

Atto I

Madre: Ricordo. Nel 1967 siamo genitori pragmatici. La figlia ha cinque anni e crede a Babbo Natale.Il padre le dice, "Babbo Natale non esiste. Sono storie per vendere. I Babbi Natali li vedi davanti ai supermercati. "

Lei si ribella "Non è vero! L'ho visto io!"

Il padre non ha pieta', "Dove l'hai visto?"

Lei pensa. Poi sussurra , "Davanti alla Standa.

Si mette a piangere. Ha capito. Il babbo non dice mai le bugie.

 

Atto II

Figlia: Potevate lasciarmi le mie illusioni.

Madre: Ho capito. Abbiamo sbagliato tutto.

2011 Pranzo di ferragosto

Luogo: campagna romagnola, sull’ aia di un casale

Personaggi: padre, madre figli, nipoti ecc. ecc.

 

Atto I

Madre: 1970 La figlia la porto alle manifestazioni. A sei anni deve  essere testimoni del cambiamento epocale che stiamo vivendo. Stiamo costruendo un nuovo mondo. 

 

Atto II

Figlia  “Quella, mia madre, era una pazza. Mi portava alle manifestazioni. Lei e quegli altri invasati stavano lì, davanti a quei ragazzini con lo scudo trasparente, a ripetere slogan e insulti. Ero terrorizzata. Ero sicura che ci avrebbero attaccato. Avevano mille ragioni. La mamma e gli altri ‘compagni’ erano solo dei piccoli borghesi radical chic  che  si permettevano di insultare gente che lavorava e che doveva  avere più paura di me.

 

(segue)

 

 

giovedì 18 ottobre 2012

Le scarpe raccontano


Mirella racconta.... 
                             

 
La porta dell’armadio è socchiusa, sento un brusio, ascolto:
“ Vedi siamo ancora belle, siamo delle piccole “lola”, così ci chiamavano allora, ti abbiamo accompagnato nei primi passi in quel cortile dove, sola, ti divertivi a guardare i giochi dei bambini dei cortili confinanti.

Noi, le scarpe rosse, il primo tacco, avevi 17 anni, anche le prime calze, no erano gambaletti, che cercavi di far sembrare calze coprendoli con le gonne lunghe.

Dì la verità, noi siamo quelle che ti diamo nostalgia, tacchi alti, vertiginosi, che indossavi sempre, ti abbiamo portato al lavoro, a passeggio, alla conquista…..si anche alla conquista, ma non sapevi che ti abbiamo portato all’alluce valgo e all’attuale mal di schiena, ogni tanto vediamo che riprovi, ma solo per poche ore, non resisti vero?

E noi che siamo qua in fondo all’armadio, si non siamo eleganti un po’ grosse, montanare, siamo le “pivetta” ancora unte di quel sego che usavi per mantenerci morbide; siamo noi che ti abbiamo accompagnato su tante montagne ma in particolare  lassù a 4000 metri, sulla cima del Bianco, dove hai lasciato una parte di te stessa e vorresti tornare a riprenderla, ma sta troppo in alto……. 

 
 

martedì 16 ottobre 2012

W l'Emilia (seconda puntata)


 Un libro di Daniele benati che cattura le atmosfere emiliane.

I personaggi vanno in giro non capendo esattamente dove sono  e cosa sta succedendo. Loro non sempre  lo sanno ma sono morti. Anche se gli sono rimaste  ben vive manie e ossessioni.

 Apparizioni e visioni popolano le pagine e creano un’atmosfera di sospensione e incertezza. Talvolta comica ma spesso  inquietante.

La prosa ha una qualità colloquiale che appartiene alla gente della nostra terra emiliana.

 Un esempio da 'Silenzio in Emilia':  l’incontro fra il bidello Squadroni  e il maestro

 

“Ma a un tratto Squadroni s’è accorto che l’autobus non stava più andando nella direzione di Rubiera e immediatamente ha approfittato di una fermata in cui l’autista aveva aperto le porte per scendere.
Fuori c’era poca luce, come se fosse già l’ora del tramonto. Non era la cosa più strana di quel giorno,ma aveva il suo che d’incomprensibile. Anche quando s’è trovato in strada, era sceso assieme a un altro passeggero, eppure adesso era lì da solo. Non importa. S’è incamminato per la direzione che riteneva più idonea e dopo pochi passi era già in aperta campagna. C’erano dei casolari di contadini abbandonati,
 con degli alberi vicino che sembravano delle macchie scure nel cielo. Su una di queste case si riusciva a leggere la scritta PERICOLANTE. C’era un antico casello diroccato vicino a una casa senza tetto e lì poco distante una macchina tutta accartocciata contro un palo della luce spento.Squadroni ha sentito un cane che abbaiava e ha visto che nel cortile di una di queste case c’era una tettoia sotto la quale erano impilati dei pezzi di legna da ardere. È rimasto lì un po’ a cercare il cane ma non l’ha visto da nessuna parte. Poi il cane ha smesso di abbaiare e d’improvviso è stato il silenzio, un silenzio così grande che per  poco Squadroni non si spaventava nell’udirlo. E subito dopo s’è sentita una voce d’uomo che lo chiamava: Squadroni… Squadroni… E poi ancora silenzio.
Chi è? ha detto allora Squadroni.
Sono io, Giacomo,diceva la voce.
Giacomo chi? ha detto Squadroni.
Ma come, Giacomo Tiberani… non ti ricordi?
Altroché se mi ricordo, era proprio lei che stavocercando, dov’è che non la vedo?
Sono qui, ha detto Tiberani.
Allora Squadroni s’è guardato intorno ma non riusciva a vederlo. C’era pochissima luce, quasi niente.
Qui dove? ha detto.
Qui vicino a te.
Ma Squadroni continuava a non vederlo. Poi si è avvicinato alla macchina accartocciata contro il
palo, da cui gli era sembrato che provenisse la voce, e parlando attraverso il finestrino gli ha chiesto
come stava.
Come vuoi che stia? ha risposto Tiberani, si fa quel che si può. Alfieri sì che sta bene.
Alfieri? Squadroni è rimasto un po’ in silenzio perché non ricordava di aver mai sentito quel nome.
Ma come, non ti ricordi di Alfieri, il falegname? Gli ha detto Tiberani. Lui sì che è ancora vivo. Io invece
sono morto due giorni dopo di te.
Le volevo chiedere una cosa, maestro, ha detto Squadroni infilando la testa nel finestrino della
macchina. Come mai mia moglie ha venduto il cascinale col fienile?
Non lo so, ha detto Tiberani. Poi gli ha chiesto: Tua moglie? quale moglie? C’era uno stupore nella sua voce che sembrava diventare sempre più grosso man mano che il silenzio gli cresceva intorno.
Come, quale moglie? ha detto Squadroni, mia moglie, no? Come mai ha deciso di vendere la casa?
Solo che a Tiberani non risultava proprio che Squadroni avesse mai avuto una moglie, e così
continuava a dire: Moglie? Moglie? con un tono di voce sempre più stupito e debole.
Perbacco, mi hanno perfin tagliato la cravatta al matrimonio, ha detto Squadroni. Non si ricorda?
C’era anche lei .. Là che mangiava …
Poi si è accorto di esser stato un po’ irriguardoso e ha cercato di scusarsi cambiando discorso.
Be’, cosa facciamo adesso? gli ha chiesto, tenendo sempre la testa dentro il finestrino.
Adesso stiamo qui, ha risposto Tiberani con una voce che sembrava spegnersi da un momento all’altro. Oppure andiamo via.
Poi s’è aperto un vasto silenzio tutt’intorno, che non si poteva più sentire un alito di niente ed era
ormai buio. Squadroni ha chiesto qualcos’altro al maestro Tiberani, ma lui non ha risposto niente.
Faceva freddo, o almeno così sembrava. Per terra si sentivano i solchi lasciati da un trattore e dopo
un po’ ha incominciato a seguirli.”

lunedì 15 ottobre 2012

Mia madre

Mirella racconta
 
Accadde così, quando se ne andò……

Era gennaio…….Era andata in cantina con mio padre per aiutarlo a prendere il carbone per la caldaia. Salendo si inginocchiò su un gradino e spirò. Ero in ufficio, mi telefonarono dicendo che la mamma era svenuta, di andare a casa subito, quando arrivai, l’avevano distesa sul letto,  gli occhi chiusi, ma lei non era più lì.

Mi sentii improvvisamente sola, travolta dalle incombenze del funerale, aiutata e consigliata dai vicini, non riuscivo a pensare ad altro finché………. Ricordo quella notte, dal mio letto vedevo la porta della sua camera illuminata ed il pensiero fisso era la finestra lasciata aperta, temevo per lei che soffriva tanto il freddo.

Cercai, in quei momenti, di riempire la mia mente di tutti gli attimi della mia vita con lei, volevo che nulla mi sfuggisse, avrei voluto essere una scultore per scolpire ogni attimo su un marmo.

I primi ricordi erano spesso collegati alle mie frequenti cadute, mi piaceva correre ed andare in bicicletta, ma le ginocchia erano sempre da restaurare, con la conseguente disinfezione, abbastanza dolorosa, quando non c’era l’alcol, c’era il sale con l’aceto, aveva il terrore del tetano, aveva perso di recente il suo nipote prediletto.

Andavamo spesso a fare passeggiate pomeridiane e la meta era la fabbrica di mio padre.

Quando ero in cortile, con il cancello rigorosamente chiuso, si affacciava spesso a controllarmi.

Rivedevo la sua felicità quando, con la liquidazione della pensione di mio padre, acquistarono una sala da pranzo in stile “chippendale”, la volle fortemente, era stata l’unica spesa che si era potuto fare senza togliere nulla agli investimenti della fabbrica.

I compagni di scuola mi chiedevano se era la mia nonna, non capivo perché, i suoi stupendi riccioli grigi non avevano età; severa, ma, forse solo in apparenza; non perdeva l’occasione per essere un’educatrice, lei, che aveva fatto solo la terza elementare, ma adorava leggere, era sempre informatissima.

Ricordai quando, con tanto timore, affrontò anche argomenti allora tabù, temeva cattivi insegnamenti e la malizia degli altri.

Leggeva il giornale sempre, si appassionava  agli scontri fra politici e seguì tutto il processo Eichmann in Israele.

Non era stato possibile comportarci come due amiche, forse perché quarantacinque  anni di differenza erano tanti, o forse ne era mancato il tempo. Ambedue, però, sentivamo la necessità del contatto fisico: spesso io, con la testa appoggiata al suo grembo, lei che mi accarezza i capelli, in silenzio…. Lei, che a 13 anni aveva dovuto  lasciare la sua mamma per andare a stare con un fratello; la famiglia, numerosa, aveva dovuto dividersi causa la morte prematura del padre.

Sapeva di essere una madre quasi nonna e temeva di non riuscire a portarmi all’età adulta.

Per fortuna Mirella è una femmina,” diceva, “una donna si cresce con meno fatica che un maschio.” 

Quando mio padre pensava ad un secondo figlio lei gli diceva sempre “ e se viene un maschio e non riusciamo a crescerlo?”

Quando la zia Maria, sorella di mio padre veniva da Genova per stare un po’ con noi,  per lei era una festa, due caratteri diversi, ma che si adoravano ed anche quel giorno di gennaio, dopo il pranzo, in attesa dell’ora per andare in ufficio, io, la testa sulle sue ginocchia, mentre la sua mano giocava con i miei capelli, mi disse “ Sai arriva  zia Maria, mi ha telefonato questa mattina, ci porta un po’ della sua allegria, ha detto che starà qui un po’ più del solito”, forse il cuore le diceva che era l’ultima carezza.

Non ho preso molti scappellotti, ma quello che ricordai meglio, in quella notte insonne, fu quello che mi diede quando le dissi che ero andata e passeggiare con le compagne in Via dell’Inferno,  per me una strada come le altre, per lei la via dove fino a pochi anni prima vi erano le “case di tolleranza”, dopo il ceffone,  mi spiegò tutto.

Anche le forti discussioni con la nonna Chiara, la suocera, mi passarono davanti come lontani episodi, eppure quando avvenivano, otre a farmi male, mi creavano disagio, perché soffrivo a vedere che due persone che adoravo, si scontravano causa la forza dei loro caratteri, ma quello della nonna cercava sempre di sopraffare l’altro, quello della mamma.

Non si era mai lamentata di essere stata 25 anni fidanzata prima di sposarsi, non ho mai capito se non le era pesato o se l’aveva subito come un destino.

Quando, ormai cresciuta, portavo i tacchi altissimi e lei non più, mi avvicinavo, abbracciandola, la sentivo piccola, con i suoi riccioli, che avevo sempre visto grigi, sulla mia spalla, mi sembrava di proteggerla da quei disturbi che la mia nascita, nella età avanzata, le aveva procurato, quei disturbi che in definitiva me la portarono via dopo 23 anni, possono  sembrare tanti, ma in un rapporto madre e figlia sono sempre pochi.

 

 

 

 

 

domenica 14 ottobre 2012

W l'Emilia Romagna

La ragazza con il vestito a fiori ci ha mandato un inno alla Emilia Romagna.


Sono passati alcuni mesi dal terremoto che a maggio ha colpito l’Emilia Romagna ma chi lo ha vissuto non potrà mai dimenticare le paure e le sensazioni provate e tutti non dobbiamo dimenticare la forza degli emiliani e la loro intraprendenza, come viene sottolineato in questo scritto preso dal web.

 L'Emilia Romagna è quel pezzo di terra voluto da Dio per permettere agli uomini di costruire la Ferrari.
 Gli Emiliani-Romagnoli sono così.
 Devono fare una macchina? Loro ti fanno una Ferrari, una Maserati e una Lamborghini.
 Devono fare una moto? Loro costruiscono una Ducati.
Devono fare un formaggio? Loro si inventano il Parmigiano Reggiano.
 Devono fare due spaghetti? Loro mettono in piedi la Barilla.
 Devono farti un caffè? Loro ti fanno la Saeco.
E' quel pezzo di terra che d'estate con quella riviera pazzesca ti fa divertire giorno e notte.
Devono trovare qualcuno che scriva poesie poi messe in musica? Loro ti fanno nascere gente come Dalla, Morandi, Ligabue,Vasco.
 Devono farti una siringa? Loro ti tirano su un'azienda biomedicale.
 Devono fare 4 piastrelle? Loro se ne escono con la piu' grande produzione di mattonelle che tutti noi abbiamo in casa.
 Non si fermano, non si stancano e se devono fare una cosa a loro piace farla bene e bella, possibilmente utile a tutti!
Ci saranno pietre da raccogliere dopo un terremoto? Loro alla fine faranno cattedrali.”


giovedì 11 ottobre 2012

Veglia e sogni. Cosa ci dice Wislava Szymborska



 
La veglia

La veglia non svanisce

come svaniscono i sogni.

Nessun brusio, nessun campanello

la scaccia,

nessun grido né fracasso

può strapparci da essa.

 

Torbide e ambigue

sono le immagini nei sogni,

il che può spiegarsi

 in molti modi.

La veglia significa la veglia

 ed è un enigma maggiore.

Per i sogni ci sono chiavi.

La veglia si apre da sola

e non si lascia chiudere.

Da essa si spargono diplomi e stelle,
 
cadono giù farfalle e anime di vecchi ferri da stiro,

berretti senza teste

 e cocci di nuvole.

Ne viene fuori un rebus

 irrisolvibile.

 

Senza di noi non ci sarebbero sogni.

Quello senza cui non ci sarebbe veglia

è ancora sconosciuto,

ma il prodotto della sua insonnia

si comunica a chiunque

si risvegli.

Non i sogni sono folli,

folle è la veglia,

non fosse che per l’ostinazione

con cui si aggrappa

al corso degli eventi.

 

Nei sogni vive ancora

 chi ci è morto da poco,

vi gode perfino di buona salute

e di ritrovata giovinezza.

La veglia depone davanti a noi

il suo corpo senza vita.

 

La veglia non arretra d’un passo.

La fugacità dei sogni fa sì

che la memoria se li scrolli di dosso facilmente.

La veglia non deve temere l’oblio.

E un osso duro.

Ci sta sul groppone,

ci pesa sul cuore,

sbarra il passo.

Non le si può fuggire,

perché ci accompagna in ogni fuga.

E non c’è stazione

lungo il nostro viaggio

 dove non ci aspetti.


Wislava Szymborska