giovedì 31 maggio 2012

Testi per voi


Disattenzione di W. Szymborska


Ieri mi sono comportata male nel cosmo.

Ho passato tutto il giorno senza fare

domande,

senza stupirmi di niente.

Ho svolto attività quotidiane,

come se ciò fosse tutto il dovuto.

Inspirazione, espirazione, un passo dopo

l'altro, incombenze,

ma senza un pensiero che andasse più in là

dell'uscire di casa e del tornarmene a casa.

Il mondo avrebbe potuto essere preso per

un mondo folle,

e io l'ho preso solo per uso ordinario.

Nessun come e perché -

e da dove è saltato fuori uno così -

e a che gli servono tanti dettagli in movimento.

Ero come un chiodo piantato troppo in

superficie nel muro

(e qui un paragone che mi è mancato).

Uno dopo l'altro avvenivano cambiamenti

perfino nell'ambito ristretto d'un batter

d'occhio.

Su un tavolo più giovane da una mano d'un
giorno più giovane


il pane di ieri era tagliato diversamente.

Le nuvole erano come non mai e la pioggia

era come non mai,

poiché dopotutto cadeva con gocce diverse.

La terra girava intorno al proprio asse,

ma già in uno spazio lasciato per sempre.

E' durato 24 ore buone.

1440 minuti di occasioni.

86.400 secondi in visione.

Il savoir-vivre cosmico,

benché taccia sul nostro conto,

tuttavia esige qualcosa da noi:

un po' di attenzione, qualche frase di Pascal

e una partecipazione stupita a questo gioco

con regole ignote.



































































































































mercoledì 30 maggio 2012

Voci dal carcere


I colori della crescita



I colori dell’infanzia

Ricordo quando ero bambino e il mondo mi sembrava come un grande parco giochi. Giocavo con mio fratello e con gli amici e a ripensarci tutto sembrava avere colori più intensi e meno sporchi, come se l’aria fosse più rarefatta e leggera e permetteva ai colori di essere più accesi. Ricordo tanti colori, a parte il nero.



I colori della vita adulta

Ho sempre avuto, da che mi ricordo, la passione per il cinema. Il fatto che in un film le cose vanno sempre come devono andare e tutto è predisposto per tale fine ha un grande fascino su di me e la mia speranza, fin da quando ero bambino, era che anche la vita potesse essere così. Sfortunatamente, ma anche fortunatamente, non è così e numerose sono le esperienze che in questo periodo mi hanno fatto prendere coscienza della realtà. Eppure continuo a proiettare luce verde sulle situazioni che si presentano nella lente del mio obiettivo.



I colori del presente

Paradossalmente essere detenuto in un carcere che offre alla vista solo il grigio sporco del cemento armato in un orizzonte ristretto rende, per contrasto, tutti gli altri colori più vivaci e necessari. Guardo dalla finestra il mondo esterno, il mondo libero al di là
delle sbarre e di queste mura, a solo pochi passi, e gli alberi sembrano più rigogliosi e verdi e il cielo più azzurro di quanto non lo siano mai stati. Il desiderio di libertà mi ha donato e dotato (se non altro) di una nuova prospettiva di vedere la vita e capire il giusto valore anche delle cose più piccole a cui prima non attribuivo il giusto valore



I colori del futuro

Vorrei poter vedere la luce alla fine di questo tunnel. Ci sono tante domande a cui non so dare risposta, e non parlo solo di quando potrò di nuovo essere libero. Tante cose sono cambiate a causa di questa situazione e sono consapevole che quando uscirò poche cose saranno come prima. Ma penso anche che sarà come una rinascita, come una fenice che risorge dalle ceneri e come tale lascerà dietro di me la terra bruciata per alzarmi in volo nel mondo azzurro e avere un quadro più ampio sulle possibilità e le strade che dovrò/potrò percorrere.

L.
(Il testo é stato presentato nel libretto 'Parole in Libertà' dell'associazione AVoC, maggio 2011)


martedì 29 maggio 2012

Le vostre storie


Giorni che cambiano la vita. 

Ci sono giorni che ti cambiano la vita.  

A volte in bene, altre volte in male.

Giorni normali, in cui ti alzi e fai le cose di sempre...sempre il solito caffèlatte, sempre la solita

tazza e la solita sigaretta subito dopo. Sempre i soliti vizi. La solita coda di cavallo, perché i capelli

lunghi li adoro ma mi fanno caldo, il solito dentifricio e il profumo di sempre.

Poi succede qualcosa che rende tutto diverso.

Era una mattina, ero sola a casa.

Scaricavo le foto di una vacanza che mi era piaciuta ma mi aveva lasciato uno strano amaro in

bocca. Ma questa è un'altra storia.

Ammiravo la mia abbronzatura mentre curavo il mio naso, il solito naso ustionato di ogni mia

vacanza. Perché non mi basta neanche la crema lì sopra.

La cartella con le foto aperta, per scorrerle ed eliminare quelle frutto di un tremito da troppo

divertimento o quelle in cui le pose erano troppo brutte per essere anche solo divertenti.

E poi una foto mia.

Che mi arriva in faccia come uno schiaffo.

Ma non si è mossa.

La guardo per qualche minuto, lunghissimo.

Non sono io.

Quella non sono io.

Io non sono così.

Non lo so per quanto me lo sono ripetuta, ho perso il conto delle volte dopo pochi secondi.

Ma era vero: io non riuscivo a collegare me a quella foto.

Non rispecchiava l'immagine che avevo io di me.

Era molto, molto peggio.

Era una foto che doveva nascere come divertente.

E a me sembrava grottesca.

In costume, intero e di un bel rosa flash.

Con sollevato sopra la testa un tavolino da giardino, di quelli tondi in cui si sta stretti anche in due,

di plastica, leggero.

L'unica cosa che vedevo io però era quel costume.

Pieno, strabordante.

Impietoso.

Ciccia, solo ciccia.

Non sono mai stata magra, almeno non dai miei 5 anni in avanti. L'ho sempre saputo, vissuto più o

meno bene, ma ci ho sempre convissuto.

Quell'estate avevo raggiunto il mio peso massimo, il picco storico.

Ma non me ne ero accorta. Io mi vedevo sempre uguale, la solita me.

Ma non era così. La solita me era avvolta in un fagotto che io non avevo visto fino a quel momento.

E quel giorno mi ha cambiato la vita.

Di riflesso, quel giorno, per soffocare il disgusto che quella foto mi aveva provocato, ho aperto il

frigo e ho fatto razzia di tutto quello che ho trovato. Masticando, credevo, avrei digerito un boccone

amaro. Peccato che quel boccone amaro non era cibo, avrei potuto masticare anche i mobili, il

disgusto sarebbe rimasto lì, uguale a prima.

Poi il disgusto, rimasto identico anche dopo aver chiuso il frigorifero, mi ha portato i sensi di colpa.

Per ogni cosa ingerita nei minuti precedenti. Perché quelle cose erano quello che mi aveva

infagottato. E che mi aveva portato ad essere quella della foto, senza rendermene conto.

E il disgusto, dopo i sensi di colpa, mi ha dato la soluzione: vomitare.

Non volevo, ma non riuscivo a resistere.

 Alla fine l'ho fatto.

Ma è stata l'unica volta.

Perché il sollievo che cercavo non è arrivato dopo il vomito.

Anzi, è tornato il bisogno di masticare.

E lì ho capito che avevo davanti un vortice che mi avrebbe fatto male da morire se mi ci fossi

infilata dentro.

E' stata dura in seguito.

Per qualche settimana il cibo in generale mi ha disgustato.

Ricordo di essere scappata più volte da uscite con amici, perché persino l'odore del cibo mi

disturbava. Non mi andava nulla, forse solo qualche caffè e un po' di insalata, giusto per dire che

mangiavo e non preoccupare nessuno.

Ricordo un amico, che era speciale e poi si è rivelato solo un'illusione, trattarmi come una bambina

che non vuole mangiare: mi ha tenuto ore seduta davanti a una bistecchina. Finché, per sfinimento o noia, me l'ha fatta mangiare tutta.

Ricordo che dopo circa tre settimane avevo perso 12 kg.

E ricordo di aver pensato che quello era solo un altro vortice, non andava bene nemmeno quello.

Sono andata da una dietologa.

Con il mio amico che aspettava fuori.

Ricordo che l'unica cosa che provavo era vergogna. Ero contenta che fosse venuto con me, era come

un fratello ed era il mio punto di riferimento. Ma mi vergognavo. Di me.

Quando sono uscita dalla visita volevo solo piangere. Forse come sfogo, a tutt'oggi non me lo so

spiegare. Ma so che non l'ho fatto. Ho portato tutta l'attenzione su un dito che mi ero schiacciata

qualche giorno prima ed era un po' nero. Abbiamo parlato per più di un'ora della facilità con cui si

lasciano dita, di mani e piedi, contro spigoli o dentro a cassetti.

Tutto, pur di evitare quell'argomento.

Tutto pur di arginare le lacrime.

Poi, è andato via.

E sono rimasta io con le mie lacrime. Finalmente. Perché quelle lacrime sono diventate forza. Nel

voler trovare un equilibrio per me, nel voler smettere di vedere il cibo come sfogo.

Perché, in tutte quelle settimane di disgusto, avevo realizzato una cosa: tutta la mia vita influenzava

il mio rapporto con il cibo. Se ero felice, andava tutto bene. Alla minima preoccupazione, il minimo

problema, il dilemma grande, il fallimento anche ridicolo o alla minima sconfitta, la mia testa

entrava nel frigo. Per uscirne solo dopo tanto cibo.

Perché in realtà ho sempre cercato di masticare i problemi della vita.

Ma in realtà ho masticato a vuoto.

I problemi non si masticano, si affrontano.

Il mio piccolo disturbo alimentare era la fame nervosa.

E, quel giorno uguale a tutti gli altri, poteva portarmi a ben altro, a disturbi più gravi e seri. Me li ha

messi davanti, mi ha fatto vedere cosa poteva diventare.

Ma mi ha salvato la paura. Paura di farmi male. L'autoconservazione ha vinto sull'autodistruzione.

Quel giorno mi ha cambiato la vita in bene.

Dopo sei mesi di dieta avevo perso 30 kg.

E li ho mantenuti.

Non li ho rimangiati.

Ho imparato a parlare e non a masticare. A dire quello che non va, quello che mi preoccupa, a non

avere paura delle mie emozioni e ad affrontarle, negative o positive che siano.

E non ho più bisogno di sfogarmi con il cibo.

Mi concedo le mie voglie ma sono slegate dal mio umore.

Certi giorni vivrei di frutta, certi di schifezze. Ma questo è normale.

Non era normale sperare di trovare consolazione in qualche ripiano del frigo.

Ancora non sono una ragazza magra.

Non lo sarò mai probabilmente.


Ma ad oggi sono fiera di quello che sono.

Ho lavorato su me stessa, ho lavorato su ogni pezzetto delle cose che per me erano solite, le solite

cose profondamente sbagliate. E le ho aggiustate.

Mi piace mangiare adesso.

Ma non sono più schiava del mio frigorifero, non è il mio muro del pianto. E' solo un posto per

conservare il cibo e l'acqua, che mi è sempre piaciuta fredda.

E ogni volta che mi guardo allo specchio, mi ricordo di quanto c'è voluto per vedermi finalmente,

per sapere che quella sono proprio io, con tutta la mia cellulite, le mie smagliature e i miei chili di

troppo.

Ma sono io.
Mi vedo, mi vivo.

Non voglio fare la modella da grande.

Ma da grande voglio fare la persona serena il più possibile.

E tutta questa storia mi ha permesso di esserlo.

Perché non mi nascondo più, né dietro ad un'abbuffata né dietro una immagine di me che ho

costruito per indorarmi la pillola.

Questa sono io.

E qualche chilo di troppo non mi rende una persona peggiore.

Io, certi giorni più, certi giorni meno, mi vedo bella.

Bella per la persona che sono.

Piango molto di più oggi, ma va bene così. E' uno sfogo sano quello.

Quella solita giornata mi ha cambiato la vita.

In bene.

Anche se all'inizio ha fatto male.

Adesso la solita me è una persona migliore.

Più leggera, ma di spirito.

Gaia


lunedì 28 maggio 2012

Le vostre storie


Storia di Sisina


Non posso raccontarvi di una nonna che mi ha accudito, o che mi ha preparato una torta speciale, o che mi ha dato i soldi per il cinema, ma vi posso raccontare la storia di una nonna che ha avuto molto coraggio.

Alcuni anni fa mia madre ha chiesto a noi figlie di accompagnarla in un viaggio, ci ha chiesto di tornare nel suo paese nativo, voleva rivedere i suoi luoghi, la sua terra e magari qualche amica rimasta e ritrovare i suoi fratelli che ormai non vedeva da diverso tempo. Anche noi, partite da piccole, non c'eravamo mai più tornate. Così, divertite dall'idea di un viaggio di sole donne abbiamo preparato i bagagli e siamo partite.

Che sensazioni...le persone, l'accento, le abitudini, gli odori...tutto ci era estraneo, eppure tutti ci salutavano, ci abbracciavano, ci baciavano come fossimo stati amici da sempre. Non capivamo niente di quello che ci dicevano eppure ci parlavano come se fosse scontato dovessimo comprendere ogni parola. Abbiamo girato, visitato e ritrovato persone che ormai si erano perse nel tempo. Eravamo perennemente invitate ad un pranzo o ad una cena (la gente del Sud, si sa, è ospitale e cordiale) e guai a rifiutare. Non facevamo in tempo a finire un pranzo che già dovevamo correre ad una cena...un incubo. Eravamo frastornate, troppa gente, troppi complimenti e soprattutto baci e abbracci da persone che ci guardavano con curiosità (ci avevano lasciate bambine e ci ritrovavano donne adulte).

La cosa che mi sorprese di più in questo viaggio fu che ovunque andassimo si parlasse del fatto che eravamo le nipoti di Sisina (Teresa), la nonna. Tutti conoscevano la storia di Teresa tranne noi che eravamo a conoscenza solamente di qualche dettaglio.

Sapevamo che era una donna impegnata politicamente e che a quei tempi – considerando il fatto di essere nel Sud Italia, negli anni 30, peraltro donna, sposata con figli – doveva certamente essere considerata un'eccezione in quel paese.

Una sera eravamo a cena da mio zio e mentre si raccontava della loro infanzia e della loro vita cominciò a parlarci di Teresa. Era la disperazione di mio nonno che forse avrebbe voluto una donna un po' più casalinga e meno battagliera. Lei invece era sempre in prima linea; in paese tutti la conoscevano per le sue battaglie e la sua testardaggine. La politica era il suo pane.

Poi è scoppiata la guerra e lei si schierò con i partigiani, naturalmente in prima fila.

Il nonno più volte l'aveva messa in guardia circa il pericolo che correva e che faceva correre alla sua famiglia, ma inutilmente perchè quando era ora di andare non c'era argomentazione che riuscisse a    trattenerla.

Era la referente di un gruppo di partigiani dispersi nella zona. Essendo così conosciuta in paese era entrata nel mirino dei tedeschi e dei fascisti. Così ogni volta che volevano informazioni lei veniva presa e portata in caserma e lì botte, percosse fino a ridurla quasi in fin di vita. Ma lei da questi pestaggi usciva sempre più agguerrita e determinata.

Finchè un giorno ci fu un grosso attentato in paese ai danni di due tedeschi che purtroppo morirono. Convinti che fossero stati i partigiani e convinti anche del coinvolgimento di Teresa la presero e questa volta non le risparmiarono nulla: fu picchiata, torturata e Dio solo sa cos'altro.

Quando il nonno riuscì a riportarla a casa era in uno stato pietoso, irriconoscibile, piena di bruciature ovunque e perdeva sangue dalla bocca. Non riprese mai conoscenza e morì per emorragia cerebrale (questa fu la diognasi del medico).

Tutto il paese aveva lottato con coraggio per difendere la propria terra, erano amici, si volevano bene, erano tutti come una famiglia e quell'atto di coraggio da parte di Teresa per non tradirli li aveva uniti ancora di più in quella terribile battaglia contro i tedeschi.

A noi questi dettagli così crudi erano stati risparmiati e vedere mia madre piangere durante il racconto mi ha fatto male al cuore, ho immaginato la sua grande sofferenza nel vedere Teresa, sua madre, così martoriata morire in quel modo.

Credo che abbia chiesto a noi di accompagnarla in questo viaggio semplicemente  perchè il ritorno a casa per lei sarebbe stato troppo doloroso e credo anche che questo sia stato il motivo che l'ha spinta a non tornare per oltre 40 anni.

Mia madre è una persona molto riservata e chiusa e fa molta fatica ad esternare le sue emozioni; questo viaggio ci ha aiutate a capirla un po' meglio.

Tutto sommato è stata una bella esperienza, siamo tornate alle nostre origini, abbiamo scoperto che il paese ricordava ancora Sisina e questo ci ha fatto estremamente piacere, ci ha fatto sentire parte di quella terra.

La storia di Teresa in fondo è una storia come tante, è la storia di tutte quelle persone che con il loro coraggio hanno salvato vite umane senza per questo ricevere nè gloria nè onori.

Avrei potuto non raccontarvi questa storia e prlarvi solo del nostro viaggio, sarebbero state tante le cose da raccontare, ma questo è un omaggio a tutti coloro che meritano almeno di essere ricordati nei nostri racconti.

A.A.

(Le foto sono di repertorio)

sabato 26 maggio 2012

Possibilità di Wislawa Szymborska


Possibilità

di Wislawa Szymborska


Preferisco il cinema.
Preferisco i gatti.
Preferisco le querce sul fiume Warta.
Preferisco Dickens a Dostoevskij.
Preferisco me che vuol bene alla gente, a me che ama l'umanità.
Preferisco avere sottomano ago e filo.
Preferisco il colore verde.
Preferisco non affermare che l'intelletto ha la colpa di tutto.
Preferisco le eccezioni.
Preferisco uscire prima.
Preferisco parlar d'altro coi medici.
Preferisco le vecchie illustrazioni a tratteggio.
Preferisco il ridicolo di scrivere poesie, al ridicolo di non scriverne.
Preferisco in amore gli anniversari non tondi, da festeggiare ogni giorno.
Preferisco i moralisti che non promettono nulla.
Preferisco una bontà avveduta a una credulona.
Preferisco la terra in borghese.
Preferisco i paesi conquistati a quelli conquistatori.
Preferisco avere delle riserve.
Preferisco l'inferno del caos all'inferno dell'ordine.
Preferisco le favole dei Grimm alle prime pagine.
Preferisco foglie senza fiori che fiori senza foglie.
Preferisco i cani con la coda non tagliata.
Preferisco gli occhi chiari perché li ho scuri.
Preferisco i cassetti.
Preferisco molte cose che qui non ho menzionato a molte pure qui non menzionate.
Preferisco gli zeri alla rinfusa che non allineati in una cifra.
Preferisco il tempo degli insetti a quello siderale.
Preferisco toccar ferro.
Preferisco non chiedere per quanto ancora e quando.
Preferisco considerare persino la possibilità che l'essere abbia una sua ragione.


venerdì 25 maggio 2012

Da Isabella in Tanzania



Da Isabella in Tanzania

Mambo mambo? 
Poa! Qui la vita è ‘poa’: ‘cool’ come la mia borsa fucsia con le giraffe … insomma basta crederci! 
È alla ‘grande’ quando dopo aver fatto lezione torni in daladala (pullmino) e non solo stai in piedi con le spalle curve e non vedi dove dovresti scendere ma la ‘solita’ (ce n’è una in dotazione a tutti i daladala) signora grassa ti strofina la sporta di pesce sui calzoni: quelli buoni che metti quando vai a far lezione …


È Poa quando manca l’acqua (dopo una giornata così) o la luce e magari dovresti spedire un documento importante oppure quando giri 4 uffici per trovare un piano di costruzione e all’ultimo ufficio ti dicono che deve essere nel primo: e domani riprendo il giro, oppure quando non c’è verso di sapere quando inizia l’università e potrò iscrivere le ragazze. E anche per questo da domani riprendo il giro…
Causa ritardi del progetto dello studentato dovremo prendere una casa più grande in affitto: nei prossimi sei mesi mi aspettano due traslochi … e stasera non c’è l’acqua: POA!



Recensione: Joseph O’Connor, Ghost Light





Vi regalo una rosa fiorita. E’ “Ghost Light” e profuma d’Irlanda.

Il testo è una biografia romanzata della storia d’amore fra John Millington Synge, famoso drammaturgo irlandese, e Molly Allgood, l’attrice che per prima portò sulla scena il testo più famoso di Synge, “The Playboy of the Western World.”
Si può romanzare la vita delle persone?
Michael Cunningham l’ha fatto con Virginia Woolf (“Le ore”) e ce l’ha mostrata mentre avanza nel fiume, con quei sassi in tasca che l’avrebbero trascinata sul fondo.
Anche Joseph O’ Connor non ha aspirazioni di autenticità. Vuole catturare l’essenza di una persona o di una storia e ciò riesce meglio, ci dice, se ci mettiamo un po’ di immaginazione. Chi cerca fatti più precisi, documentati, si deve rivolgere altrove, scrive l’autore nell’appendice al testo.
Ma credo che valga la pena di leggerla questa storia d’amore fra il trentaseienne Synge e la sua attrice preferita, una giovanissima Molly che, in tanti aspetti, ci ricorda la Molly Bloom dell’Ulisse joyciano, entrambi così vitali e combattive.
Il romanzo si apre con la nostra Molly che, nella squallida Londra del dopoguerra, si avvia a fare una registrazione alla radio. E ormai vecchia, probabilmente alcolizzata e povera. La sua storia d’amore con Synge, durata poco più di un anno, è lontana nel tempo eppure presente nella memoria di Molly che, nel suo cammino attraverso Londra, ricorda i momenti passati insieme, lui, il ‘vagabondo’ che tanto amava camminare nella campagna. Ricorda l’opposizione incontrata dalla famiglia di lui, dai suoi colleghi di lavoro con i quali avevano dato vita a un rinascimento culturale. Gli ostacoli: la differenza d’età, di religione, di posizione sociale.
La storia scorre attraverso la mente di Molly e i suoi lunghi monologhi ci rivelano la sua combattiva vitalità e la rassegnazione di Synge, consapevole di dover presto morire.
Difficile è trovare la parola per descrivere la scrittura che si dipana davanti ai nostri occhi: lieve, suggestiva, delicata. Una scrittura che parla alle ombre e le cattura prima che “the phantoms recede into the wall paper” (i fantasmi si ritirino nella carta da parati).
Intrigante la voce narrante: un ‘tu’ che Molly usa per parlare a sé stessa, per rivolgersi all’amato che può improvvisamente diventare un ‘lui’, una terza persona, e il lettore diventare il ‘tu’al quale Molly si rivolge.
Un esempio: in questo caso Molly si rivolge all’ombra dell’amato con queste parole, “Lasciami sola, questa sera,” sussurri, “oggi non vado bene per te.”
Un’ultima riflessione prima di lasciarvi: il titolo.
“Ghost light” sono le luce di servizio del teatro quando quelle principali sono spente. Ma la parola “ghost” (fantasma) suggerisce la penombra in cui si incontrano le ombre, nella quale è possibile incontrare coloro che non ci sono più.
Titolo intraducibile in italiano e allora se vi imbattete in un libro che si intitola “Una canzone che ti strappa il cuore ” e decidete di comprarlo, sappiate che state per entrare nella penombra in cui sono possibili incontri impossibili.


Buona lettura

Maria Luisa

giovedì 24 maggio 2012

Recensione: Destino coatto



Goliarda Sapienza, Destino coatto, Einaudi, 2011.

Date un’occhiata a questo libretto, piccolo ma decisamente disturbante.
Sono racconti, brevi o brevissimi, pubblicati postumi, di Goliarda Sapienza (1924-1996).
Vi regalo il primo, che è l’ultimo della raccolta. Perché ne abbiate un’anteprima.

“Ieri sono riuscita a salire su quella sedia e lì ho riposato. Oggi tento di salire su questo tavolo. E lì riposerò fino a domani?”

L’autrice coglie i pensieri, le paure i deliri della gente comune, voci disturbate, voci nevrotiche, voci psicotiche.
Possiamo chiamarli racconti?
Ve ne propongo una altro.

“L’ho vista. E’ tornata. Al tramonto. Spiava dietro il lampione. E quando il lampione s’è acceso ho visto i suoi capelli bianchi , ricci. Lo sapevo. Tornerà sempre, là sotto il lampione.”

La bellissima introduzione al testo, a cura di Angelo Pellegrino, cerca di ricostruire il percorso umano e letterario della scrittrice. Interessante.
Ma io voglio leggerli, questi racconti o qualsiasi altra cosa siano, per trovarci i miei incubi, le mie paure, i miei momenti allucinatori. Insomma quell’ombra che mi segue e non riesco mai a raggiungere malgrado mi volti a cercarla.


Comunità di donne




Una volta che ce l’ho fatta.
Una volta che sono stata calpestata.

Poche volte nella mia vita ce l'ho fatta.
Poche volte o ho sentito quella soddisfazione che ti cresce dentro, quella felicità strana che riguarda te stessa. 
Non ho mai riso di felicità-. O forse quando studiavo e mi sono laureata ho creduto un po’ in me e ho avuto un minimo di soddisfazione per essere capace di fare qualcosa di buono.
Per il resto non ricordo di avercela mai fatta. 
Ma sogno un giorno di piangere di gioia per qualcosa di diverso, per qualcosa che riguarda i sentimenti.
Mi sono sentita calpestata spesso…. 
mi vengono in mente tanti ricordi, con tanto dolore. 
Solo leggendo la parola ‘calpestata’ la penna si blocca sul foglio.
Quando ho amato, e ho amato tanto, con tutta l’anima, dando rispetto e fiducia, non sono stata capita né amata, ma anzi quasi sempre illusa.
Ho creduto spesso in persone sbagliate che mi hanno fatto male al mio amore e al mio cuore.
Mi sono sentita calpestata tutte le volte che avevo solo bisogno di un abbraccio stretto fino all'anima e invece tutti mi chiedevano altro … di essere forte, di non mostrare mai niente, di sorridere.
Mi sono sentita calpestata nei sentimenti, sempre.
Ma non smetto di crederci perché ho ancora bisogno di quegli abbracci.

Un’amica

giovedì 17 maggio 2012

Isabella scrive dalla Tanzania

Carissima

A volte le cose coincidono e stasera ho sia la luce che La chiavetta internet funzionante..per cui …

Ora sono alla scuola di Makoko (che non trovi neppure sulle cartine): è un bel posto nel nulla sul lago Victoria. Sto cercando di imparare il kiswahili e ne avrò fino all’8 dicembre. Poi mi trasferirò a Mwanza (che invece trovi con Google hearth) che è la seconda città della Tanzania per dimensioni ma ‘purtroppo’ in forte espansione. Crescono gli affitti e le baraccopoli.

In Tanzania sto imparando un po’ di cose: intanto che le leggi della fisica sono relative: in un pullmino dove starebbero 9 europei  stanno fino a 25 tanzaniani, che le zebre che vedo dal bus sono animali troppo improbabili: ma CHI le ha fatte a strisce bianche e nere dovendo vivere nella savana che è gialla? E con dei culoni poi che mica possono correre … insomma un insulto a Darwin.

Ho imparato anche che dove vivono gli africani non possono sopravvivere gli americani. La maggior parte dei miei compagni è statunitense: giuro:  c’è pure un ex-marine che ora fa il frate domenicano … questi non hanno ancora capito dove sono atterrati: non sanno proprio nulla del resto del mondo, non sanno una seconda lingua oltre la loro ma han letto su un sito che servono 9 mesi per imparare il kiswahili. Penso che finiranno mangiati da un leone: insomma sono peggio delle zebre!!!

A scuola parlo solo inglese o kiswahili e faccio un bel po’ di confusione: anche perché ci sono tutti gli accenti: americano (of course), indo-english, african english e … una suora che credevo avesse la dentiera e invece è IRLANDESE!!! Io sono anche stata un po’ stronza i primi giorni perché quando delle svizzere han cominciato a dire che a loro mancava la cioccolata, io ho detto che a me mancava il caffè e poi ho chiesto alla suora se le mancassero le patate!

I tanzaniani sono molto carini, davvero amichevoli. Ti dicono sempre ‘benvenuta’ e sorridono..a volte li invidio perché qua non c’è proprio nulla: malaria, HIV, noccioline e ricariche telefoniche..eppure non sembrano preoccuparsi troppo…le donne tengono su il mondo: fanno tutti i lavori pesanti, allevano i figli e costano solo 20 mucche. Sono contenta di lavorare nel campo dell’educazione delle ragazze. Per ora studio e vado a Mwanza ogni 2 settimane: impiego 6h e mezza (cambiando 4 mezzi) per fare 250km. Ho alcuni ‘forse’ per dei lavori: oltre alla costruzione e gestione dello studentato, darei  una mano in una prescuola per bimbi di strada o ammalati di HIV: si insegna loro l’alfabeto, i numeri e qualche parola di inglese perché non partano svantaggiati a scuola e la abbandonino, poi ci sarebbero l’insegnamento di elementi di psicologia ad un corso per counsellors (sempre per HIV) e i giovani della parrocchia ..


mercoledì 16 maggio 2012

Le vostre storie

Da Mirella

MAUTHAUSEN
     Per non dimenticare


Sono passati ormai quasi 7 anni da quel giorno, da quella mattina che iniziammo quel “ viaggio “, che sapevamo non essere una vacanza, ma una presa di coscienza.

Avevamo prenotato da tempo presso l’ANED, era il 60/° anniversario della liberazione dei campi di sterminio.

Informati da libri, film, testi di ogni genere, pensavamo di sapere, ma bisogna vedere per sapere e continuare a ricordare.

Alle 6 del mattino di venerdì 6 maggio , con un tempo variabile partiamo, con piacere conosciamo quelli che saranno i nostri compagni di viaggio: ad esempio, due dipendenti del Comune di Casalecchio, il presidente dell’Aned di Bologna, signor Corazza, ex deportato, la segretaria e tanti altri.

A Tarvisio passiamo il confine, entriamo in Austria, qualcuno dell’Associazione comincia ad illustrarci le varie tappe del viaggio e l’atmosfera comincia a cambiare.

Il tempo è grigio, durante la seconda sosta siamo contornati da cime innevate e fa freddo, oltre al freddo che ha iniziato a penetrarci. 

Arrivati a Linz, ci sistemiamo nelle camere, andiamo a cena dove, compagni di tavolo i due dipendenti comunali di colore politico diverso, si inizia un colloquio a puntate sull’argomento. Più tardi facciamo un breve giro, la serata è libera, ma la stanchezza ed il freddo si fanno sentire.

L’indomani, dopo la prima colazione si parte per la visita al Campo di sterminio di Mauthausen e di Gusen.  Arrivati al piccolo paese:  piccole villette, un qualunque paesino di collina, ci accoglie, lasciamo il pulman alla stazione e percorriamo a piedi quella strada che migliaia di deportati avevano percorso nel periodo dello sterminio; nessuno parla, abbiamo tutti freddo, sotto ai nostri giubbotti imbottiti, loro avevano vestiti di cotone, zoccoli ai piedi …..senza cappotti.
La storia la sanno tutti ma toccare con il cuore, camminare su quelle stesse pietre, mi sembra di violare un sacrario, arriviamo all’entrata principale, c’è gran fermento per la preparazione della giornata di domani ”Incontro internazionale” lapidi, monumenti che ci urlano la loro storia, inizia una pioggerellina, che sembra quasi timida per non disturbare quell’omaggio, quello ufficiale lo faremo domani.
Arriviamo a quell’enorme spiazzo che è la cava, ora, è piena di verde, sembrerebbe un luogo di pace, invece qui passarono 206000 ombre che non erano più persone, di ambo i sessi e ne morirono circa 150000, era il “campo madre”  per tutta l’Austria, iniziamo a percorrere la “Scala della morte” 186 gradinie dalla lettura della targa sentiamo, non sulle spalle ma nel cuore, il peso di quegli orrori di quei crimini inenarrabili  che qui si sono perpetrati.Nel silenzio sentiamo i suoni che escono da quelle pietre, i tonfi dellebastonate e del calcio dei fucili, mentre si abbattono su quei povercorpi che reggevano sulle spalle un pesantissimo masso

La storia la sanno tutti ma toccare con il cuore, camminare su quelle stesse pietre, mi sembra di violare un sacrario, arriviamo all’entrata principale, c’è gran fermento per la preparazione della giornata di domani ”Incontro internazionale” lapidi, monumenti che ci urlano la loro storia, inizia una pioggerellina, che sembra quasi timida per non disturbare quell’omaggio, quello ufficiale lo faremo domani.

Proseguiamo per Gusen, uno dei tre sottocampi di Mauthausen, ci fermiamo davanti a uno dei forni crematori.

Uno degli  ex deportati che ci accompagna si sente male, deponiamo una corona di alloro, poi rientriamo in albergo per il pranzo, non è facile mangiare dopo una simile visita.

Al pomeriggio ci aspetta una ulteriore prova, la visita al Castello di Hartheim (centro di sperimentazione medica nazista sui deportati ).


Il Castello di Hartheim era originariamente un luogo di cura per bambini malati di mente curati da un gruppo di suore del convento di Alkoven. Nel 1940 i nazisti scacciarono le suore e la struttura venne trasformata in un centro di eutanasia, nell’ambito dell’operazione T4, ovvero dello stermino dei portatori di malattie mentali e di portatori di handicap.

Il castello di Hartheim divenne tristemente famoso come sede di esecuzioni di massa, in applicazione della disposizione sulla eutanasia voluta da Hitler. Il castello era in posizione isolata, vicino alla linea ferroviaria e vicino anche al campo di Mauthausen. Nel castello venne costruita una camera a gas che funzionò non solo per Mauthausen anche per Dachau.

L'Aktion T4 fu il nome dato dopo la prima guerra mondiale al Programma nazista di eutanasia che sotto responsabilità medica prevedeva la soppressione di persone affette da malattie genetiche, inguaribili o da più o meno gravi malformazioni fisiche. Si stima che l'attuazione del programma T4 abbia portato all'uccisione di un totale di persone compreso tra le 60.000 e le 100.000. Per quanto concerne la sola terza fase dell'aktion T4, i medici incaricati di portare avanti l'operazione decisero di uccidere il 20% dei disabili presenti negli istituti di cura, per un totale di circa 70.000 vittime. Ad ogni modo l'uccisione di disabili proseguì anche oltre la fine ufficiale dell'operazione, portando quindi il totale delle vittime ad una cifra che si stima intorno alle 200.000 unità. Il tutto regolarmente registrato e documentato dal fanatismo nazista, e giustificato, si fa per dire, come risparmio per la nazione.

Questi dati non è facile scriverli, sembra di essere in un film dell’orrore, ma non è stato un film, le foto che tappezzano le pareti di questo luogo ed i filmati ti annientano, non riesci più a pensare, fai fatica a credere che “medici” abbiano potuto perpetrare simili crimini.

Rientriamo a Linz, dopo una breve sosta, si va a cena e solamente guardando i sopravvissuti che sono con noi riusciamo a rientrare nell’attualità.

L’indomani mattina 8 maggio ripartiamo per l’incontro internazionale  al campo di Mauthausen, entriamo nel clima, un po’ rumoroso ma molto rispettoso. Dopo la cerimonia al monumento italiano, dove troviamo
anche la lapide di un cittadino di Sala Bolognese, dove abitiamo ora
ci uniamo al corteo delle delegazioni internazionali, intorno a noi in tutte le lingue, si parla di quell’ orrore, a parte la diversità degl ’inni nazionali, l’espressione degli occhi ed i sentimenti si incontrano in un unico popolo.

Finite le cerimonie passiamo al museo, acquistiamo alcune cartoline, che non spediremo mai perché sono testimonianze che non puoi trasmettere con una cartolina.