La
Maria
“Qualche
giorno fa ho comprato due o tre piantine di gerani. Quelli che mi ha lasciato
la Maria sono tutti nodosi, con rami lunghi, senza grazia. Ho chiesto alla
Maria: che cosa devo fare? Se non me lo dici tu, lo sai che non so cavarmela.
Non mi ha risposto. E così li ho lasciati come erano e ne ho comprato dei
nuovi. Chissà se cresceranno.”
Mi
parlava così con un’aria un po’ impacciata, ma gli occhi fermi e diretti e la
voce, di tanto in tanto si arricchiva di una nota di autoironia. Nonostante la
perdita della sua Maria, aveva a poco a poco riacquistato un certo equilibrio.
Equilibrio o mite follia? Perché lui alla Maria parlava tutti i giorni e tutte
le notti nella insonnia cronica che lo incalzava da anni, due notti sì e una
no, e la Maria gli appariva in sogno a rimproverarlo, come del resto era stata
sua abitudine in vita, e non per mancanza di amore ma per la convinzione che
lei a lui doveva insegnare tutto, o lui si sarebbe perso. Una notte gli aveva
detto in sogno: Bada bene di dare quei soldi della vendita del garage alla
Veronica, che ne ha più bisogno.
Come
se lui non lo sapesse già da sé, lui padre amorosissimo e pronto a svenarsi per
quei tre figli al punto che ormai gli restava ben poco su quel conto corrente
che loro due insieme avevano alimentato anno dopo anno.
E’
vero che non erano mai stati dei risparmiatori: risparmiavano per spendere.
“Voglio godermi la vita finché posso.” Diceva la Maria, come presaga di quel
male che l’avrebbe consumata, corrosa, si sarebbe fatto servire da chirurghi
internazionali e avrebbe infine avuto ragione di tutto e tutti.
Non
sempre la vedeva in sogno. Ma lei era lì, abitava la casa con la sua
presenza/assenza, abitava la sua memoria, abitava il suo cervello, sì che gli
pareva a volte di essere ventriloquo con quella voce che gli parlava dentro e
gli passava a volte delle ricette (non sempre precise, come quella volta che
finì per fare due chili di “chiacchiere” con l’aggiungere ora latte, ora uova,
ora farina per rendere quel malloppo di pasta trattabile con la spianatrice), a
volte gli ricordava momenti della loro vita insieme, a volte lo stimolava a
uscire o a curarsi.
Il
più delle volte il loro dialogo era sommesso, adatto a due coniugi che hanno
trascorso insieme più di trent’anni. E gli anni prima del matrimonio, non erano
forse da contare?
Si
erano conosciuti al liceo, lui alto, gli occhi grigioverdi in un viso dai
tratti nobili che rivelavano già una certa tendenza alla rinuncia, al sottrarsi
alle prove rischiose. Un bel ragazzo, e lei, la Maria, l’avrebbero poi chiamata “quella dal bel fidanzato”. La
Maria veniva dalla provincia con il treno tutte le mattine, una ragazzina di
diciassette anni con bei capelli biondi tagliati come Ingrid Bergman in Per
chi suona la campana (il film era uscito proprio allora), un naso
spiritoso, denti leggermente in fuori, una carnagione di bionda e due belle
gambe che lo avevano colpito là, nel centro della sua immaginazione e gliela
avevano indicata come quella che, se ne avesse avuto il coraggio, avrebbe
scelto per essere la sua ragazza.
Si
erano incontrati ad una festa da ballo al circolo provinciale, lei corteggiata
per la sua vivacità e la sua proterva sincerità che la rendeva tanto più
attraente delle sue coetanee, tutte inamidate nella loro convenzionalità. Ma lei,
gli rivelò più tardi, lo aveva già adocchiato il bel ragazzo di città. Avevano
ballato tutta la sera, no, non tutta, perché la Maria aveva già impegni con
altri. “Il suo carnet era pieno.”, dice
lui ora con un sorriso di compiacimento. Si erano poi rivisti tutti i giorni
perché lui aveva pianificato i loro incontri con metodo. Aveva sacrificato il
sonno, lui, che si alzava ogni mattina alle otto per essere a scuola alle otto
e mezzo. Aveva puntato per settimane la sveglia alle sette per andare a prendere
la Maria al treno delle sette e trenta. Per
un’ora, camminando per le strade della città allora un po’ depressa, un
po’ fatiscente, prima che l’opulenza dei suoi monumenti fosse stata riportata alla luce per il
godimento di turisti, chi attenti chi frettolosi. Parlavano di scuola, di
compiti, perfino di calcio, rammenta ridendo. Continuarono a parlarne per
settimane.
Un
giorno - c’è sempre un giorno che segna
l’inizio di una storia - un giorno lui si era trovato con i compagni
di scuola ai margini di un boschetto, dove si tenevano certe celebrazioni risorgimentali, con una
rassegnata aspettativa di noia e discorsi ufficiali, quando improvvisamente si
era sentito tirare per la giacca. Non aveva pensato che ci sarebbe stata anche
lei, la Maria, la futura “Bionda” della sua vita.
Ora
quando racconta con un sentimento misto di rimpianto, umorismo e tenerezza, si
rivede incerto ed intenso inoltrarsi nel boschetto con lei e camminare e
parlare, camminare e parlare di scuola, di compiti e di calcio. “Non avrei mai
avuto il coraggio di prendere l’iniziativa.” dice ora “Per fortuna ci sedemmo
su un albero di traverso nel bosco ed io avrei certamente ricominciato a
parlare se lei non mi avesse chiesto: ‘Allora non mi dai un bacio? Tutto è cominciato lì, ma se non fosse stato
per tua madre, forse tu , Luca, non saresti mai nato…”
Così
racconta e nei suoi occhi singolarmente diretti c’è uno sguardo appena appena
triste con un prevalere di ironia divertita.
Ma
lei se n’è andata. Perché lo ha lasciato? Non sarebbe stato meglio che lui
sparisse prima, perché lei avrebbe saputo dove trovare i panni al
sopraggiungere dell’inverno, avrebbe continuato a cucinare per sé e per i figli
ormai tutti e tre sposati (quanto aveva insistito perché i suoi due maschi si
sistemassero con una moglie prima che lei prendesse congedo definitivamente da
loro, presto, troppo presto), quando fossero venuti a trovarla. Avrebbe fatto i
suoi agnoli e le chiacchiere. Quando uno dei suoi figli era diventato
vegetariano, per compiacerlo, aveva perfino imparato ad usare la soia per
l’impasto dei suoi famosi agnoli, ma gli agnoli non erano più gli stessi.
Ha
voluto liberarsi di tutti i vestiti della Maria e delle sue cose più intime.
Non avrebbe potuto pensarli vuoti del suo corpo femminilmente robusto e avrebbe sofferto anche di più. I
suoi anelli, che amava portare in tutte le dita, li ha distribuiti tra la
figlia e le due nuore: del resto la Maria quei pochi altri gioielli li aveva
già regalati, presaga come era sempre stata della sua fine.
“Ha
continuato a combattere con i tumori per restare ancora un po’ con noi. Ma sono
stati due anni terribili: Li rivivo continuamente; sono il mio incubo
costante.”
La
notizia di un cancro al fegato, anzi di alcuni tumori, come diceva lei, non
l’aveva piegata subito perché la Maria, con la sua passione per la medicina,
repressa a suo tempo per ragioni economiche, aveva studiato biologia ed era
medico per vocazione e curiosità. Sapeva tutto quello che le sarebbe successo
e, almeno con gli amici, ne parlava con appassionata competenza e lucidità.
Delle sue disperazioni, degli sconforti che lui doveva aiutarla a vincere,
intuivamo e fingevamo di non sapere. Dei suoi capelli perfettamente candidi, da
biondi come erano sempre stati, ci congratulavamo con lei con ipocrisia
benintenzionata. Sapevamo che non poteva più tingerli e il loro candore
assumeva un fascino un po’ sinistro. Sembravano il segno precoce di un
allontanarsi dal mondo della normalità femminile.
Aveva
deciso di tentare il tutto per tutto, nonostante i medici cercassero di
dissuaderla. “Dicono che sono troppo vecchia. Ma a cinquantanove anni c’è
ancora vita da vivere.” Infine aveva trovato chi l’avrebbe operata,
trapiantandole un nuovo fegato. Da lì i viaggi a Strasburgo, città fredda,
livida, bagnata da piogge continue. Lui ricorda con smarrimento la prima visita
laggiù, nella sala d’aspetto del grande chirurgo, con gli abiti inzuppati, gli
ombrelli gocciolanti e il senso di freddo fin nelle ossa. E l’attesa del
verdetto. Operabile, quando si fosse trovato un organo compatibile.
I
due mesi intercorsi tra la decisione e la telefonata che li convocava a
Strasburgo erano stati segnati dall’angoscia del troppo tardi e dall’incertezza
della scelta fatta.
Il
suo sguardo si perde all’improvviso a seguire il prolungato delirio della Maria
dopo l’operazione: settimane di solitudine nell’altalenare della speranza e del
terrore di riaverla, sì, in vita, ma la ragione distorta e deformata dalla
chimica interna impazzita. Non si muoveva mai dal letto della Maria e i medici
si erano abituati a quel signore italiano dallo sguardo ormai folle che
bisognava mandare via a notte fatta, quando tutti gli altri se ne erano già
andati. Lo tolleravano, nonostante il rigido regolamento, perché solo, così
vistosamente disperato e incapace di prendere un attimo di distanza dal suo
dolore.
In
settembre il figlio più giovane si era sposato, i genitori ancora a Strasburgo,
e mai cerimonia fu più consapevole di una doppia assenza.
La
Maria riuscì a tornare a casa per alcuni mesi. Ci furono pochi momenti di
serenità prima di ripercorrere di nuovo il labirinto senza più uscita.
Ed
ora che anche il suo fegato reca le stimmate della malattia della Maria, lui
affronta tutto senza timore e senza ansia: ha già visto tutto e sperimentato
tutto attraverso di lei. Non c’è sorpresa. E si abbandona al pensiero che non
ci vorrà molto prima che ritrovi la sua Bionda.
Ma
lei, da qualche parte, gli sussurra: “Non ancora. C’è tempo. Resta un altro po’
con loro.”
Silvia
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