domenica 29 aprile 2012

Le vostre storie


Stagioni



Una estate tardiva
 

La mattina l’aria è morbida

come coscia di neonato.

Le foglie fremono come di carezza.

A metà giorno la vampa residua

azzanna feroce.

Si aspetta la notte

per un lenzuolo di frescura.





Autunno


Una ginkobiloba gialla di itterizia

compone la sua morbidezza

su un foglio di cielo chiaro.

Una quercia richiama

rintocchi di bronzo su antiche

chiese. Colori di un autunno

avanzato. Un poco di vento

e resteranno solo sculture dolenti.





Inaspettatamente

una finestra aperta

sulla campagna buia

mi angoscia.

Una assopita,

sorvegliata pena

si riaffaccia improvvisa.

Dolorosamente

mi invade

la tua assenza.

M.


sabato 28 aprile 2012

Le vostre storie


LA MIA ESPERIENZA DELLA MORTE

RICORDO DI  MIA MADRE E MIA NIPOTE LARA  
17 FEBBRAIO 2012

Ho vissuto la morte attraverso l’esperienza personale di assistenza a malati terminali, come volontaria dell’ADVAR(Assistenza Domiciliare Gratuita “Alberto Rizzotti” Onlus Treviso). Nel febbraio del 1991, da sola, ho chiuso gli occhi a mio padre, a casa, nel suo letto, dove ero riuscita a portarlo da alcuni giorni, dopo una breve permanenza in ospedale. I medici avevano diagnosticato una pronta guarigione, mentre io avevo capito che ci stava lasciando.

Ho poi assistito per sette anni, insieme a mio marito, mia mamma immobile nel letto, ma molto consapevole di essere a casa sua con i suoi cari, ed infine ho cercato di essere vicina a mia nipote Lara B., morta il 17 febbraio 2006, a soli 35 anni, di tumore al seno.

Credo che queste tre esperienze siano state, anche se diverse, molto importanti per la mia crescita come persona.

Il lungo calvario di mia madre iniziò nel 1991 dopo la morte quasi improvvisa di mio padre.  Un ictus, la maculopatia e la rottura del femore la obbligarono a letto per sette lunghi anni.

Non parlava più, disperata e non rassegnata, giaceva immobile nel letto senza poter comunicare anche se sono convinta che sapesse di essere nella sua casa ed infatti verso la fine della sua lunga malattia ritrovò un po’ di pace.

Non è stato facile assistere alla sua decadenza fisica, alla sua totale dipendenza dagli altri e, per sette anni, all’impossibilità di fare anche il più piccolo gesto in modo autonomo.

Quante volte mi sono chiesta se lei, persona vivace e attiva, avrebbe voluto vivere in quel modo? Era vita quel trascorrere giornate tutte uguali a letto, assistita ininterrottamente, ma incapace di comunicare con noi, anche solo attraverso un piccolo gesto? Era veramente consapevole del nostro affetto che le manifestavamo attraverso una carezza, un bacio e altre “coccole”? Quante cose avrebbe voluto dirci senza riuscirci?.

La sua tristezza e la sua disperazione e la rabbia si sono nel tempo attenuate, e lentamente, soprattutto nell’ultimo anno di vita, credo che abbia ritrovato la pace e così la sua morte è stato un passaggio sereno e a lungo cercato.

Per me è stata una grande lezione, molto dura a volte, con momenti di disperazione, di rabbia, ma anche con periodi di gran dolcezza. E’ una prova difficile diventare la “madre della propria madre”.

Ho imparato, assistendola, ad apprezzare tante piccole cose nel loro vero valore, a godere appieno di tutto quello che mi capitava, ero felice di poter ancora insegnare, di stare con i miei allievi e di continuare a svolgere il mio lavoro che mi ha sempre dato molte soddisfazioni.

L’aiuto incredibile di mio marito , di Elena ed Assunta mi hanno aiutato a tenere mia madre in casa e l’abbiamo difesa dalla medicalizzazione e dall’accanimento terapeutico anche perché, per sua e nostra fortuna, lei non aveva dolori.

Ho vissuto la sua malattia come un’esperienza dolorosa, ma preziosa perché ho imparato che la malattia modifica la vita in diverse misure e spesso scandisce i ritmi e ne condiziona le scelte. Infatti come dice Sottsass nella sua intervista a Stefano Boeri: «Perché in una malattia c’è sempre una zona di solitudine assoluta, anche se sei assistito meravigliosamente come mi accade in questi giorni, anche se vengono a trovarti molti amici: La malattia è un colloquio continuo con te stesso, su cosa sei e sarai».₁

Ho capito, in parte, il senso di paura e di abbandono che assale il malato terminale, il suo bisogno di ascolto e rispetto, ma la vita quotidiana con il suo ritmo, spesso frenetico, non concede tregua ed il tempo manca sempre.

Si evita di riflettere su un problema che alla fine riguarda tutti noi ed è difficile vincere le nostre paure ed ansie e decidere di stare vicino ad un nostro caro o a un amico che sta morendo. Le persone oggi si preoccupano soprattutto di trovare le parole adatte quando si avvicinano a un ammalato grave, ma le parole spesso non servono anche perché quali parole possono essere di conforto  ad una persona che si sta spegnendo?

 Sono i morenti che ci aiutano, noi dobbiamo, solamente, stare accanto a loro con un ascolto empatico, dimenticando le nostre paure, le nostre preoccupazioni quotidiane, la nostra fretta.

E’ necessario muoversi nel mondo dell’ammalato con delicatezza, ascoltare, dare e non chiedere nulla in cambio. Sono convinta che morire con dignità sia molto più importante che vivere qualche giorno in più “ nelle braccia fredde della medicina” che non hanno più nulla di umano.

Il poeta Charles Pèguy ha espresso in pochi versi tutto quello che una persona desidera avere negli ultimi giorni della sua vita: amore, ricordo, rispetto. In una parola, tutti noi vorremmo essere accompagnati alla morte con dignità e poter stringere la mano di una persona cara nel momento più difficile che dobbiamo affrontare.

L'amore non svanisce mai

la morte non è niente, io sono solo

Andato nella stanza accanto.

Io sono io. Voi siete voi.

Ciò che ero per voi lo sono sempre.

Datemi il nome che mi avete sempre dato.

Non usate un tono diverso.

Non abbiate un'aria solenne e triste

continuate a ridere di ciò che ci faceva ridere,



insieme. Sorridete, pensate a me, pregate per me.

Che il mio nome sia pronunciato in casa

come lo è sempre stato,

senza alcuna enfasi, senza alcuna ombra

di tristezza.

La vita ha il significato di sempre

il filo non si è spezzato.

Perchè dovrei essere fuori dai vostri pensieri?

Semplicemente perchè sono fuori dalla vostra

vista?

Io non sono lontano,sono solo dall'altro lato del cammino.

Charles Péguy ²



Un’altra dolorosa esperienza mi ha confermato che la malattia ti aiuta a capire che tutti alla fine abbiamo bisogno dell’altro ed è importante non scappare davanti a questa prova che, al contrario, va affrontata con coraggio: veramente”la malattia, può essere “un tempo per volere”.

Questo è il messaggio che mia nipote Lara ha lasciato a tutti noi: infatti, con grande forza d’animo e coraggio ha cercato di combattere il tumore maligno che l’aveva colpita ad appena 32 anni.

Sono sei anni che Lara  ci ha lasciati e quest’anno il suo anniversario cade di nuovo di venerdì , Lara è morta il 17 febbraio 2006.

La sua malattia si era presentata in modo subdolo nell’autunno 2002, ma all’inizio era stata sottovalutata, poi venne sottoposta a chemioterapia e, nella primavera, a mastectomia totale.

Lara reagiva bene, continuava a lavorare presso lo studio del padre ed era sostenuta in questa sua lotta impari da tutta la sua famiglia e dal suo ragazzo.

Un grande aiuto lo riceveva dal computer perché attraverso il suo blog dava forza e coraggio alle persone che le scrivevano e, soprattutto, trasmetteva un messaggio di fiducia e serenità.

₁S.Boeri, Ultima intervista a E.Sottsass,«Corriere della Sera»”2/1/2008

² C. Pèguy, Oeuvres poétiques complètes, Pléiade, Gallimard. Parigi 1957,p.32 .



Nel 2003 e nel 2004 la malattia aveva presentato fasi alterne,Lara era stata obbligata ad usare la carrozzella, non poteva più lavorare, poi nel 2004 alcune cure avevano migliorato la sua salute e riusciva a camminare anche se i dolori alle gambe erano molto forti a causa delle metastasi ossee.

Il calvario dei vari esami, da un centro all’altro, le creavano ansie incredibili e non c’erano mai risposte positive perciò mia nipote, nonostante la sua forza e voglia di lottare, cominciava a dare segni di stanchezza.

La domanda che continuava a farmi e che mi faceva molto soffrire era sempre la stessa:«Perché, zia Silvia, devo morire così giovane?»

Che   cosa potevo rispondere a questa domanda angosciante e senza risposta? Cercavo di ascoltarla in modo intenso e con empatia, trasmettendole tutto il mio affetto e la mia vicinanza; a volte riuscivo a calmarla altre volte, invece, piangevamo disperatamente insieme.

La sensibilità di Lara si era acuita moltissimo dopo la malattia e coglieva le sfumature, anche le più nascoste, nelle parole delle poche persone che, di tanto in tanto, l’andavano a trovare.

Mia nipote non sopportava più discorsi inutili e banali e preferiva restare sola, ma spesso mi chiedeva perché le persone non riuscivano o non volevano capire il suo enorme problema.

Dicembre 2005 gennaio 2006 furono mesi terribili, mia cognata Roma, la mamma di Lara passava notte dopo notte accanto a sua figlia, mio cognato Donatello, il fratello Claudio  ed il suo ragazzo Ernesto cercavano di esserle costantemente vicini senza risparmiarsi.

Il giorno 14 febbraio 2006 venne ricoverata all’ospedale di Jesolo e sottoposta a tutte una serie di cure e di trasfusioni: tutti eravamo convinti che le cure avrebbero dato il risultato sperato.

Improvvisamente la tragedia il giorno17 Lara entrò in coma, mio marito ed io arrivati all’ospedale di Jesolo trovammo Lara distesa nel letto con un viso dolcissimo sereno, ma senza nessun segno di vita.

Alle 18.20 Lara moriva senza riprendere conoscenza . Oggi 17 febbraio 2012 a sei anni dalla sua morte continuiamo a pensare a lei, alla sua breve vita, alle sue lunghe sofferenze e a tutto l’affetto che ci ha dato e soprattutto alla sua carica d’umanità che si è manifestata negli anni della malattia.

Queste due esperienze di dolore, sofferenza, malattia e morte mi hanno molto provato, ma nello stesso tempo mi hanno dato maggior forza e mi stanno aiutando nell’ascolto delle persone in difficoltà.

Mi auguro di poter aiutare le persone, amiche e amici che soffrono, per continuare l’opera che Lara aveva iniziato e portato avanti nei suoi anni di malattia.



Silvia Allasia Baione    Treviso 17 febbraio2012

giovedì 26 aprile 2012

Comunità di donne


MI RICORDO 

Mi ricordo mio padre quando ero piccola. Mi  ricordo che mi teneva in braccio e mi raccontava le favole.

Mi  ricordo mia madre, che beveva tanto e non guardava neanche cosa facevamo e intanto noi eravamo fuori sulla neve con vestitini leggeri.

Mi ricordo i miei primi giorni in orfanatrofio.

Mi ricordo il mio primo giorno di scuola.

Mi ricordo il mio primo ballo e quel primo bacio. 

Mi ricordo quando ho dovuto lasciare l'Istituto.

Mi ricordo il viaggio nella città, lontano da scuola e da tutti gli amici.

Mi ricordo il mio primo ragazzo e la mia prima volta con lui. Mi ricordo che lui ha preparato tutto Mi ricordo che  mi ha baciato e abbiamo fatto l'amore sulla coperta, in mezzo al nulla, in un bosco dove sentivi solamente il caldo e il canto degli uccellini.

Mi ricordo la mia prima sigaretta e quello che mi ha cambiato la vita:  il mio ricordo più bello è la mia splendida figlia e la sua nascita.

Mi ricordo l'abbandono del mio ragazzo quando scoprii che ero incinta.

Mi ricordo la stazione dei treni dove ho dormito con mia figlia piccolina.

Mi ricordo quando ho trovato mia madre biologica e non era  come la desideravo.

E mi ricordo che lei mi abbandono un'altra volta e ho pianto di nuovo.

Mi ricordo le carezze e  tanti abbracci.

Mi ricordo tanti viaggi e belle esperienze.

Mi ricordo quanto ero eccita per il viaggio in Italia e quanto ho sofferto in Italia le amicizie sbagliate, l’ amore perso,  tanta tristezza.

Mi ricordo la mia prima volta di coca, di canna e tante altere cose.

E mi ricordo Sam, l’amore mio.

E ora sono qui e mi ricordo che devo essere forte per raggiungere la mia meta e il mio obiettivo.

Mi ricordo che devo vivere.

A.






lunedì 23 aprile 2012

Le vostre storie


La Maria 

“Qualche giorno fa ho comprato due o tre piantine di gerani. Quelli che mi ha lasciato la Maria sono tutti nodosi, con rami lunghi, senza grazia. Ho chiesto alla Maria: che cosa devo fare? Se non me lo dici tu, lo sai che non so cavarmela. Non mi ha risposto. E così li ho lasciati come erano e ne ho comprato dei nuovi. Chissà se cresceranno.”

Mi parlava così con un’aria un po’ impacciata, ma gli occhi fermi e diretti e la voce, di tanto in tanto si arricchiva di una nota di autoironia. Nonostante la perdita della sua Maria, aveva a poco a poco riacquistato un certo equilibrio. Equilibrio o mite follia? Perché lui alla Maria parlava tutti i giorni e tutte le notti nella insonnia cronica che lo incalzava da anni, due notti sì e una no, e la Maria gli appariva in sogno a rimproverarlo, come del resto era stata sua abitudine in vita, e non per mancanza di amore ma per la convinzione che lei a lui doveva insegnare tutto, o lui si sarebbe perso. Una notte gli aveva detto in sogno: Bada bene di dare quei soldi della vendita del garage alla Veronica, che ne ha più bisogno.

Come se lui non lo sapesse già da sé, lui padre amorosissimo e pronto a svenarsi per quei tre figli al punto che ormai gli restava ben poco su quel conto corrente che loro due insieme avevano alimentato anno dopo anno.

E’ vero che non erano mai stati dei risparmiatori: risparmiavano per spendere. “Voglio godermi la vita finché posso.” Diceva la Maria, come presaga di quel male che l’avrebbe consumata, corrosa, si sarebbe fatto servire da chirurghi internazionali e avrebbe infine avuto ragione di tutto e tutti.

Non sempre la vedeva in sogno. Ma lei era lì, abitava la casa con la sua presenza/assenza, abitava la sua memoria, abitava il suo cervello, sì che gli pareva a volte di essere ventriloquo con quella voce che gli parlava dentro e gli passava a volte delle ricette (non sempre precise, come quella volta che finì per fare due chili di “chiacchiere” con l’aggiungere ora latte, ora uova, ora farina per rendere quel malloppo di pasta trattabile con la spianatrice), a volte gli ricordava momenti della loro vita insieme, a volte lo stimolava a uscire o a curarsi.

Il più delle volte il loro dialogo era sommesso, adatto a due coniugi che hanno trascorso insieme più di trent’anni. E gli anni prima del matrimonio, non erano forse da contare?

Si erano conosciuti al liceo, lui alto, gli occhi grigioverdi in un viso dai tratti nobili che rivelavano già una certa tendenza alla rinuncia, al sottrarsi alle prove rischiose. Un bel ragazzo, e lei, la Maria, l’avrebbero  poi chiamata “quella dal bel fidanzato”. La Maria veniva dalla provincia con il treno tutte le mattine, una ragazzina di diciassette anni con bei capelli biondi tagliati come Ingrid Bergman in Per chi suona la campana (il film era uscito proprio allora), un naso spiritoso, denti leggermente in fuori, una carnagione di bionda e due belle gambe che lo avevano colpito là, nel centro della sua immaginazione e gliela avevano indicata come quella che, se ne avesse avuto il coraggio, avrebbe scelto per essere la sua ragazza.

Si erano incontrati ad una festa da ballo al circolo provinciale, lei corteggiata per la sua vivacità e la sua proterva sincerità che la rendeva tanto più attraente delle sue coetanee, tutte inamidate nella loro convenzionalità. Ma lei, gli rivelò più tardi, lo aveva già adocchiato il bel ragazzo di città. Avevano ballato tutta la sera, no, non tutta, perché la Maria aveva già impegni con altri. “Il suo carnet era pieno.”,  dice lui ora con un sorriso di compiacimento. Si erano poi rivisti tutti i giorni perché lui aveva pianificato i loro incontri con metodo. Aveva sacrificato il sonno, lui, che si alzava ogni mattina alle otto per essere a scuola alle otto e mezzo. Aveva puntato per settimane la sveglia alle sette per andare a prendere la Maria al treno delle sette e trenta. Per  un’ora, camminando per le strade della città allora un po’ depressa, un po’ fatiscente, prima che l’opulenza dei suoi monumenti  fosse stata riportata alla luce per il godimento di turisti, chi attenti chi frettolosi. Parlavano di scuola, di compiti, perfino di calcio, rammenta ridendo. Continuarono a parlarne per settimane.

Un giorno  - c’è sempre un giorno che segna l’inizio di una storia  -  un giorno lui si era trovato con i compagni di scuola ai margini di un boschetto, dove si tenevano certe  celebrazioni risorgimentali, con una rassegnata aspettativa di noia e discorsi ufficiali, quando improvvisamente si era sentito tirare per la giacca. Non aveva pensato che ci sarebbe stata anche lei, la Maria, la futura “Bionda” della sua vita.

Ora quando racconta con un sentimento misto di rimpianto, umorismo e tenerezza, si rivede incerto ed intenso inoltrarsi nel boschetto con lei e camminare e parlare, camminare e parlare di scuola, di compiti e di calcio. “Non avrei mai avuto il coraggio di prendere l’iniziativa.” dice ora “Per fortuna ci sedemmo su un albero di traverso nel bosco ed io avrei certamente ricominciato a parlare se lei non mi avesse chiesto: ‘Allora non mi dai un bacio?   Tutto è cominciato lì, ma se non fosse stato per tua madre, forse tu , Luca, non saresti mai nato…”

Così racconta e nei suoi occhi singolarmente diretti c’è uno sguardo appena appena triste con un prevalere di ironia divertita.

Ma lei se n’è andata. Perché lo ha lasciato? Non sarebbe stato meglio che lui sparisse prima, perché lei avrebbe saputo dove trovare i panni al sopraggiungere dell’inverno, avrebbe continuato a cucinare per sé e per i figli ormai tutti e tre sposati (quanto aveva insistito perché i suoi due maschi si sistemassero con una moglie prima che lei prendesse congedo definitivamente da loro, presto, troppo presto), quando fossero venuti a trovarla. Avrebbe fatto i suoi agnoli e le chiacchiere. Quando uno dei suoi figli era diventato vegetariano, per compiacerlo, aveva perfino imparato ad usare la soia per l’impasto dei suoi famosi agnoli, ma gli agnoli non erano più gli stessi.

Ha voluto liberarsi di tutti i vestiti della Maria e delle sue cose più intime. Non avrebbe potuto pensarli vuoti del suo corpo femminilmente  robusto e avrebbe sofferto anche di più. I suoi anelli, che amava portare in tutte le dita, li ha distribuiti tra la figlia e le due nuore: del resto la Maria quei pochi altri gioielli li aveva già regalati, presaga come era sempre stata della sua fine.

“Ha continuato a combattere con i tumori per restare ancora un po’ con noi. Ma sono stati due anni terribili: Li rivivo continuamente; sono il mio incubo costante.”

La notizia di un cancro al fegato, anzi di alcuni tumori, come diceva lei, non l’aveva piegata subito perché la Maria, con la sua passione per la medicina, repressa a suo tempo per ragioni economiche, aveva studiato biologia ed era medico per vocazione e curiosità. Sapeva tutto quello che le sarebbe successo e, almeno con gli amici, ne parlava con appassionata competenza e lucidità. Delle sue disperazioni, degli sconforti che lui doveva aiutarla a vincere, intuivamo e fingevamo di non sapere. Dei suoi capelli perfettamente candidi, da biondi come erano sempre stati, ci congratulavamo con lei con ipocrisia benintenzionata. Sapevamo che non poteva più tingerli e il loro candore assumeva un fascino un po’ sinistro. Sembravano il segno precoce di un allontanarsi dal mondo della normalità femminile.

Aveva deciso di tentare il tutto per tutto, nonostante i medici cercassero di dissuaderla. “Dicono che sono troppo vecchia. Ma a cinquantanove anni c’è ancora vita da vivere.” Infine aveva trovato chi l’avrebbe operata, trapiantandole un nuovo fegato. Da lì i viaggi a Strasburgo, città fredda, livida, bagnata da piogge continue. Lui ricorda con smarrimento la prima visita laggiù, nella sala d’aspetto del grande chirurgo, con gli abiti inzuppati, gli ombrelli gocciolanti e il senso di freddo fin nelle ossa. E l’attesa del verdetto. Operabile, quando si fosse trovato un organo compatibile.

I due mesi intercorsi tra la decisione e la telefonata che li convocava a Strasburgo erano stati segnati dall’angoscia del troppo tardi e dall’incertezza della scelta fatta.

Il suo sguardo si perde all’improvviso a seguire il prolungato delirio della Maria dopo l’operazione: settimane di solitudine nell’altalenare della speranza e del terrore di riaverla, sì, in vita, ma la ragione distorta e deformata dalla chimica interna impazzita. Non si muoveva mai dal letto della Maria e i medici si erano abituati a quel signore italiano dallo sguardo ormai folle che bisognava mandare via a notte fatta, quando tutti gli altri se ne erano già andati. Lo tolleravano, nonostante il rigido regolamento, perché solo, così vistosamente disperato e incapace di prendere un attimo di distanza dal suo dolore.

In settembre il figlio più giovane si era sposato, i genitori ancora a Strasburgo, e mai cerimonia fu più consapevole di una doppia assenza.

La Maria riuscì a tornare a casa per alcuni mesi. Ci furono pochi momenti di serenità prima di ripercorrere di nuovo il labirinto senza più uscita.

Ed ora che anche il suo fegato reca le stimmate della malattia della Maria, lui affronta tutto senza timore e senza ansia: ha già visto tutto e sperimentato tutto attraverso di lei. Non c’è sorpresa. E si abbandona al pensiero che non ci vorrà molto prima che ritrovi la sua Bionda.

Ma lei, da qualche parte, gli sussurra: “Non ancora. C’è tempo. Resta un altro po’ con loro.”
Silvia

domenica 22 aprile 2012

COMUNITA' DI DONNE





Cosa raccontano le mie mani

Guardo le mie mani.
Le mie mani sono libere.
Le mie mani hanno fatto tante cose sbagliate:
hanno toccato cose proibite,
hanno rubato,
hanno fatto male agli altri.
Ma soprattutto hanno fatto male a me stessa.
Per esempio
quando uno prende la siringa,
quando trova la vena migliore e
buca con forza la pelle
iniettando veleno giallastro nel sangue
solo per fare un breve viaggio in paradiso.

Queste mani hanno accarezzato tanti visi,
hanno stretto tanti corpi in un caloroso abbraccio,
hanno asciugato tante lacrime.

Le mie mani hanno stretto altre mani come due calamite che si attraggono.
Le mie mani hanno strisciata lentamente sul corpi caldi e sudati.
Hanno regalato piacere.

Tante volte
la notte
con gli occhi rivolti verso l'infinito
le mani si sono unite in preghiera

implorando il cielo che qualcosa cambiasse.
A.


giovedì 19 aprile 2012

Le vostre storie


Mirella é stata la prima che coraggiosamente ci ha affidato una storia

Il viaggio

Il sole ammicca attraverso le tapparelle, sembra voglia scuotermi e svegliarmi, si, mi fa l’occhiolino.

Stirandomi, sento una atmosfera nuova, sotto alle coperte al calduccio penso ad un viaggio………………..il viaggio ancora in corso, con tante stazioni, dove il treno a volte ha sostato, per proseguire sullo stesso binario, altre ha solo rallentato per prendere meglio lo scambio.

Già la partenza era stata imprevista, nessuno si aspettava che due novelli sposi “quarantacinquenni” si impegnassero per mettere al mondo un figlio, eppure sono nata fra la gioia di tutti, così quel treno è partito…….è partito sbuffando, attraversando, quasi in parallelo, terre sotto i bombardamenti, quello che per gli adulti era un dramma, fu quasi, per me,  un’avventura, ero troppo piccola.

Forse l’aver vissuto sin da piccola con persone molto più adulte di me, mi ha predisposto a cercare di aiutare gli altri, anche se penso che sia una forma di egoismo anche questa.

Il contatto con la natura era il mio mantra, sempre e ovunque in mezzo ad essa ero e sono a mio agio, sia sola che in compagnia, mi appagava sia il silenzio degli immensi ghiacciai, che lo sciacquio del mare, il viaggio di una colonia di formiche, i frutti dell’orto ed ora il mio piccolo giardino o la campagna davanti alla mia terrazza. 

Quel treno, con la fantasia ed il desiderio era sempre a pieno vapore, il mio motto, “alzati, svelta, preparati ed in stazione prendi il primo treno che parte”………..sono certa che, se ci fossi andata, il primo treno sarebbe partito per “Porretta”,  pazienza, anche li avrei incontrato  nuovi paesaggi, colori, profumi, perché era quello che cercavo e quando poi ci sono stata li ho trovati.

Alla fine della terza media, rallentando ad una stazione pensai di cambiare binario , ma non avevo molto tempo, non potevo pensare di andare all’Università, mi serviva un diploma a breve scadenza, il treno prese lo scambio e proseguì,  su quella  via ho trovato amici, saldando amicizie che durano tuttora, ne è valsa la pena.

A diploma conseguito, pensavo  alla libera professione, l’ho anche tentata, ma la timidezza ed il mio carattere mi fecero scegliere la strada dell’essere “dipendente”, ero certa che sarei riuscita ad avere ugualmente delle soddisfazioni, a volte è stato duro a volte gratificante.

La timidezza mi è sempre stata compagna, camminando per strada, se fuori da un bar vi erano dei tavolini con uomini e ragazzi, io passavo sul marciapiede opposto, se a delle conferenze o a dei corsi di aggiornamento avevo bisogno di intervenire, aspettavo gli interventi degli altri sperando che qualcuno esprimesse i miei stessi quesiti, poi con il viso in fiamme intervenivo; nelle situazioni della vita mi bastava avere un bambino da accudire che la timidezza scompariva…. Bé diciamo scompariva…..

Ci sono stati incontri con dolori, che mi hanno procurato profonde ferite, che ho cercato di curare,  Orchi e Ciclopi, che ho  rinchiuso nel loro antro oscuro con le stesse pietre che avevano buttato sul mio binario, sul quale vedo ancora in lontananza (timido augurio) tanti cartelli, sono stazioni piene di profumi, di musica e suoni, di natura incontaminata, sono altri tesori che spero riuscirò a scoprire.        

 

mercoledì 18 aprile 2012

Itaca

Una poesia per riflettere sul nostro percorso di vita.

K. P. Kavafis

ITACA
Quando inizierai il tuo viaggio verso Itaca,
prega che la strada sia lunga,
ricca di avventure, ricca di conoscenza.
Lestrigoni e Ciclopi,
Poseidone furioso – non averne timore:
non ne incontrerai mai sul tuo cammino,
se i tuoi pensieri rimarranno alti, se una gentile
emozione accarezzerà il tuo spirito e il tuo corpo.
Lestrigoni e Ciclopi,
Poseidone selvaggio, non li incontrerai mai
se già non li porti dentro la tua anima,
se l’anima non li frapporrà ai tuoi passi.


Prega che la strada sia lunga.
Che le mattine d’estate siano molte, quando
con grande piacere, con grande gioia,
entrerai per la prima volta in porti mai visti;
fermati ai mercati fenici,
compra le merci migliori,
di madreperla e corallo, ambra ed avorio,
caldi profumi di ogni genere -
profumi caldi quanti ne puoi portare.
Visita molte città egizie,
per imparare ancora ed ancora dai sapienti.

Tieni sempre Itaca a mente:
raggiungerla è il tuo ultimo scopo.
Non affrettare però minimamente il viaggio,
meglio lasciarlo durare molti anni;
attraccare alfine all’isola quando sarai vecchio,
ricco di tutto ciò che avrai raccolto per strada,
senza pretendere che Itaca ti offra altri tesori.

Itaca ti ha donato il Viaggio meraviglioso.
Senza di lei tu non saresti mai partito per la tua via.
Essa non ha null’altro da offrirti.

Se la troverai povera, non credere che Itaca t’abbia ingannato.
Saggio come sei diventato, con sì tanta esperienza,
avrai già compreso cos’Itaca realmente rappresenti.


martedì 17 aprile 2012

'La sovrana lettrice': recensione


Alan Bennett, The Uncommon Reader
 (La sovrana lettrice, Adelphi 2007)


La storia in breve: la regina di Inghilterra s’imbatte in un biblioteca mobile parcheggiatavicino al suo palazzo. Lì incontra  Norman, un accanito lettore che lavora come sguattero nelle cucine reali e che   la guida a scoprire il piacere della lettura.  Leggere  rende la regina più attenta agli altri e ai loro bisogni e più autonoma nei giudizi (il che ovviamente dà un gran fastidio a ministri e persone di potere) .  
La trama  è esile perché il testo è sul piacere dalla lettura, su come le persone siano cambiate dai libri  e, udite, udite, come un buon lettore, prima o poi, passi a cimentarsi nella scrittura.
Alcuni esempi.
Parlando del perché finisce sempre un libro, “Once I start a book I finish it. That was the way one was brought up. Books, bread and butter, mashed potatoes – one’s finishes what’s on one’s plate. That’s always been my philosophy.” (Una volta che comincio un libro lo finisco.  Dipende da come si è stati allevati. Libri, pane e burro, puré –uno finisce quello che ha nel piatto. Questa è sempre stata la mia filosofia..)
Al segretario privato che commenta  che i libri aiutano la sovrana a passare il tempo, risponde  “Books are not about passing the time, they are about other lives. Other worlds.” (I libri non sono sul passare il tempo. Sono su altre vite. Altri mondi.)
Al cameriere che le riferisce che un  suo libro dimenticato in carrozza é stato preso come il marchingegno per  un  attentato, replica “Yes. That is exactly what it is. A book is a device to ignite the imagination.(Si. E’ proprio quello che é. Un libro é un marchingegno per fare scattare l’immaginazione.)
Nel suo taccuino, citando Amleto, scrive che i libri sono un paese non ancora esplorato (Books were uncharted country); scrive anche che, “You don’t put your life into your books.You find it there. (Non metti la tua vita nei libri. La trovi lì.)


Un libretto delizioso che voi, noi, lettrici (e forse scrittrici), non possiamo perdere. Buona lettura e mandatemi commenti.


Maria Luisa

domenica 15 aprile 2012

Mappa

Piatta come il tavolo
su cui è posata.
Sopra di lei niente si muove
né muta posto.
Sopra di lei il mio respiro umano
non crea vortici d'aria
né sfuma affatto i suoi nitidi colori.
Perfino i mari sono sempre amichevolmente turchini
sui suoi bordi sdruciti.
Qui tutto è piccolo, accessibile, vicino.
Con la punta dell'unghia posso schiacciare vulcani,
accarezzare i poli senza spessi guanti,
con una sola occhiata
posso abbracciare ogni deserto
assieme ad grande fiume proprio accanto.
Le foreste sono indicate da pochi alberelli
in mezzo a cui è impossibile perdersi.
A est e a ovest
sopra e sotto l'equatore
si sgrana il silenzio,  
dentro ogni seme nero, gente che vive.
Niente fosse comuni e macerie improvvise
in questo quadro.
I confini tra i paesi sono appena visibili,
come se esitassero: -  essere o non essere?
Amo le mappe perché mentono
perché non ammettono le verità aggressive
perché con magnanimo e bonario humour
mi dispiegano sul tavolo un mondo
non di questo mondo.



Wislawa Szimborska

martedì 10 aprile 2012

Mi Presento

Sono Maria Luisa,
sono 'esperta di metodologia autobiografica'. Parole difficili ma che significano soltanto che sono in grado di  - o dovrei essere in grado di - aiutarvi a scrivere i vostri ricordi. Che possono anche diventare storie. Perché scriviamo sempre la nostra vita. Nel senso che scriviamo ciò che conosciamo. Che popoliamo le nostre storie di persone che abbiamo conosciuto, incontrato, sognato. Uno scrittore ha detto che chi  scrive scrive  sempre la sua autobiografia. Siete d'accordo?
Questo blog è nato per raccogliere le storie di tutti quelli che hanno un testo nel cassetto e lo vogliono condividere. Per coloro che vogliono mettersi alla prova con la scrittura. Quindi ci sono pagine per voi. Che aspettano i vostri testi.
Poi ci sono spazi per coloro che vivono, al momento,  una situazione di restrizione: voci dal carcere, voci da comunità.
E recensioni. A cui potete mandare i titoli dei libri che vi hanno cambiato la vita. O semplicemente i libri che vi sono  piaciuti. Con alcune righe di motivazione.


Grazie a tutti voi che siete da qualche parte nel mondo.


Maria Luisa

La gioia di scrivere

Dove corre questa cerva scritta in un bosco scritto?
Ad abbeverarsi a un'acqua scritta
che riflette il suo musetto come carta carbone?
Perchè alza la testa, sente forse qualcosa?
Poggiata su esili zampe prese in prestito dalla verità,
da sotto le mie dita rizza le orecchie.
Silenzio-anche questa parola fruscia sulla carta
e scosta
i rami generati dalla parola "bosco" [...]


(Wislawa Szymborska-"Elogio dei sogni" da Un secolo di poesia del Corriere della Sera)

Siamo in Arrivo

In arrivo uno spazio tutto dedicato alla scrittura. 
La mia passione per la scrittura presto su queste pagine.
Su cui raccontare Storie le mie ma anche quelle che voi lettori vorrete condividere su questo libero spazio